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Nei diari di Claretta Petacci un racconto inedito del fascismo e della guerra

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Mase una battaglia può decidere il destino di un secolo non potrà mai spiegare i sentimenti di chi l'ha combattuta. E sono proprio i sentimenti i protagonisti degli scritti di Claretta Petacci, una donna dalle emozioni fiammeggianti e dalle certezze incrollabili, che oggi ci arrivano fresche e intatte così come quando furono vissute. In questi giorni Rizzoli pubblica «Verso il disastro», con il sottotitolo: «Mussolini in guerra - Diari 1939 -1940», a cura di Mimmo Franzinelli con una postfazione di Ferdinando Petacci, euro 21,50, 464 pagine. Clara Petacci, classe 1912, figlia di un medico romano, conobbe Mussolini a vent'anni e ne rimase travolta, diventandone presto l'amante. Per lei, fascista fino in fondo, Mussolini era tutto: il pubblico e il privato. Annota meticolosamente nei suoi diari ogni incontro con il duce e le confidenze ricevute dal dittatore. Clara Petacci ci offre un inedito punto di osservazione: quello di un Mussolini visto sul balcone non dalla straboccante piazza Venezia e nemmeno da chi era insieme a lui su quel balcone. Ma con l'occhio di chi, in qualche modo, è distaccato eppure vicinissimo. Claretta guarda la Storia con gli occhi del cuore. Conservati negli Archivi di Stato e coperti da segreto per settant'anni, i diari rivelano la Petacci come una testimone d'eccezione della vita di Mussolini, dell'Italia fascista e, più in generale, di tutto quel periodo. Non per niente nel 1950 l'ispettore generale degli archivi di Stato, Emilio Re, affermava con decisione: «I veri e più importanti diari di Mussolini sono questi della Petacci». E non gli si può dare torto. Dagli scritti emerge un duce inedito. Con la famiglia, forse, si mostrava distaccato e sicuro, con i gerarchi addirittura sprezzante, mentre, tra i suoi collaboratori, non ce n'era nemmeno uno che gli fosse veramente vicino. La giovane Claretta, aveva trent'anni meno del suo Benito, era un'altra cosa. A lei appariva per quello che, forse, realmente era: dubbioso, incerto, alle volte tormentato. E la dice lunga quel modo di salutare che aveva il duce al termine delle telefonate: «Addio», quasi per liberarsi di un peso. Ma poi, magari dopo pochi minuti, richiamava. Tutto annotato, con precisione, in un documento che racconta un'epoca.

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