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Il giradischi

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Un pregiudizio frusto e stantio vuole che il rock sia morto e sepolto. E allora converrà chiarire come stanno davvero le cose: perché a essere in crisi sono i grandi mogol della discografia mondiale, non gli artisti. Il drammatico cambio di passo dal vinile al cd al formato digitale ha costretto le major a fare i conti con una congiuntura industriale sfavorevolissima, penalizzando quei musicisti in grado di sfornare brillanti idee, ma che non siano già caratterizzati da un marchio, uno stile, un nome vendibile. A soffrire di questa situazione sono dunque gli esordienti, i non-garantiti, i precari della musica, che si vedono sbarrare le porte in faccia dalle etichette che contano, quelle in grado di distribuire il prodotto sul mercato tradizionale: a questi ragazzi non resta che riversarsi in Rete, tra YouTube, MySpace e Facebook, e sperare che qualcuno si accorga di loro prima che stacchino la spina dei loro amplificatori, e si dedichino ad altre occupazioni. A salvare la pelle sono invece i rocker della penultima generazione, quelli cresciuti negli anni Novanta apprendendo la lezione dei leggendari dinosauri della prima ondata. I quarantenni e qualcosa, che non abbiano perso però la voglia di credere che il loro sia un privilegio, e non una mortificante routine per ripetere all'infinito quel che hanno già proposto, magari con grande successo. Ecco allora un manipolo di crociati della «verità» del rock, che hanno imparato ad accettare le rughe sul volto senza perdere il coraggio, la ribalderia, la vocazione avventurosa dei vent'anni. Quanti ce ne sono? Non moltissimi: Dave Grohl (ex batterista dei Nirvana e oggi chitarrista leader dei Foo Fighters), Michael Stipe (che però viaggia intorno ai 50 anni) con i R.E.M., forse i Red Hot Chili Peppers, sicuramente Eddie Vedder con i suoi immarcescibili Pearl Jam, Damien Rice, Dave Matthews e infine Ben Harper. Questo è l'ideale equipaggio in grado di timonare l'arca del rock anche dopo il diluvio, e tramandarne il segreto per chi verrà dopo. Nessuno chiede a questi ex ragazzi di tenere botta nell'impossibile confronto con gli dei pagani degli anni Sessanta e Settanta, che suonavano nella convinzione che la loro prossima nota avrebbe davvero cambiato il mondo, e non solo in senso artistico. Qui non c'è più una rivoluzione in vista: ma occorre genio, rabbia, energia, passione, talento, voglia di sorprendere, o almeno di provare a farlo. Ben Harper? Per chi non lo conoscesse questa è un'ottima occasione: sarà in tour in Italia a luglio. Il 19 di quel mese, a Capannelle, illuminerà Rock in Roma condividendo il palco con Robert Plant, circonfuso di sempiterna gloria Led Zeppelin. L'eclettico Ben, del resto, non si tira indietro quando si tratta di suonare con i mostri sacri: in questo suo decimo album "Give till it's gone", il chitarrista e cantante californiano si avvale del contributo nientemeno che di Ringo Starr in due brani ("Spilling faith" e il suo spontaneo sequel "Get there from here"), e in un altro ("Pray that our love sees the dawn") della voce del menestrello della West Coast Jackson Browne. Un quarto pezzo ("Rock'n'roll is free") gli è stato ispirato da una sera in cui si esibiva a Londra prima di Neil Young. Qual è la sua forza? Offrire a chi lo ascolta la sensazione che non ne prevederai la prossima mossa: potrebbe trattarsi di una inaspettata ballad d'amore o di una furiosa cavalcata oltre i dubbi e i ripensamenti, girando attorno a un suono che non è mai ingabbiato nei clichè, incastrato dalla "necessità" discografica, mortificato dal dovere, ma fluisce invece giocosamente libero, e dal vivo garantisce sempre scintille. Quello che il rock dovrebbe sempre fare, a meno di non rinnegare se stesso. Questa sortita è la seconda da "solista" dal tempo di "Both sides of the gun" del 2006. Senza, insomma, che qui Harper solleciti ufficialmente la sua band degli Innocent Criminals. Ma, ad ascoltarlo, tutto sembra Ben tranne uno condannato alla solitudine artistica. Per fortuna. Voto 8 su 10

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