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Dici Salgari e fai il gioco dei contrari.

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Isuoi libri sono popolarissimi, di culto come s'usa dire oggi. Eppure i manuali di storia della letteratura lo snobbano. Eppoi: la sua vita viaggiò in modo inversamente proporzionale alla fortuna. L'Italietta fin de siècle - conformista, bacchettona - fu stregata dai suoi romanzi. I ragazzi, ma anche le mamme e i travet, se li leggevano tutti d'un fiato. Erano la quintessenza della trasgressione. E però non sfioravano mai la volgarità, mai erano sconci. C'era invece l'esotismo, l'audacia, l'amore, l'imprevisto. Insomma, il veronese Emilio, con quei suoi baffi all'insù e la penna svelta di chi è abituato a scrivere sulle gazzette, conosceva a menadito l'arte di avvincere. Ma poi finì in un imbuto nero: la moglie impazzita, i debiti, gli editori sanguisuga, un groviglio di affanni che risolse, il 25 aprile del 1911, togliendosi la vita. Il centenario è ricordato tempestivamente da Newton Compton che sta mandando in libreria uno dei volumoni della collana «Mammut» e ci riunisce tutte le avventure dell'eroe più famoso di Salgari, Sandokan. Sono dieci storie (comprese le meno citate «Il bramino dell'Assam» e «La caduta di un impero») che creano una sorta di universo parallelo, primitivo, totalizzante, lontano, capace per questo di influenzare ancora oggi l'immaginario collettivo. Salgari non è da meno dei romanzieri odierni, i King, i Folletti, i Tom Clancy, gli specialisti di thriller o di fantasy. Sa accumulare i colpi di scena, concatenare «sequenze di episodi che non lasciano al lettore il tempo di distrarsi», come ha scritto Mario Tropea, italianista a Catania, in un saggio che definisce il romanziere veronese un «classico della letteratura». E dunque, mica un eccentrico capace di ipnotizzare i ragazzi. Ma grande proprio per la doppia virtù di essere semplice e complesso insieme. Con tecnica di racconto svelta come certa cinematografia odierna. Pensi ai «Predatori dell'arca perduta» di Harrison Ford. E ricordi che lo sceneggiato Rai di Sergio Sollima, «Le avventure di Sandokan», fece volare gli ascolti. Vaglielo a spiegare ai trinariciuti prof di letteratura italiana cresciuti a pane e Marx. La fantasia di Salgari è l'opposto del realismo socialista. Storie di pura evasione, eroi disimpegnati, lingua sciolta. Dunque, cassato dai manuali per gli studenti, Salgari. Oppure citato di striscio, come fa Gianfranco Ferroni, nella sua Storia della Letteratura Italiana (Einaudi). Il prof si ricorda del Nostro, ovvero di «Jolanda, la figlia del corsaro nero», solo parlando dei film diretti da Mario Soldati. Il consunto livore didascalico marxista schizza poi dalla «Storia intertestuale della letteratura italiana» di Angelo Marchese (D'Anna). Ecco la sentenza capitale: «In un autore di grandissima fortuna come Emilio Salgari, Sandokan, I pirati della Malesia e Le tigri di Mompracem sono l'occasione per inoculare nelle giovani menti dei lettori il velemo del razzismo e del sadismo (ma i modelli attuali dei mass media non sono certo migliori)». Allora ha ragione Sergio Campailla, ordinario di letteratura italiana a Roma Tre, che ha curato il «Mammut» di Newton Compton su Sandokan. Nell'introduzione parla di un vero e proprio «caso Salgari». E conclude: «Sarebbe sbagliato privarsi di lui, che rappresenta una quota umile del nostro patrimonio ideativo e letterario. Il complesso di superiorità non serve a niente, e maramaldeggiare su Salgari non ci fa crescere. È autore che sa procurare un divertimento, al più, confinato alla letteratura amena per ragazzi. Come se fosse facile raccontare ai ragazzi».

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