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Poveri e sporchi ma finalmente italiani

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diANTONIO ANGELI Più che lavoratori erano schiavi: non avevano orari, non c'era riposo settimanale. Potevano essere cacciati in qualunque momento senza ragione e il salario lo decideva il padrone. Erano, neanche tanti anni fa, i lavoratori dipendenti italiani e queste poche righe non sono certo sufficienti a descrivere la miseria della loro condizione. Chi, negli anni attorno alla Prima Guerra mondiale, si trovava a dover fare il bracciante o l'operaio e non possedeva niente di suo se la passava veramente male. E la guerra certo non migliorò la situazione, anzi. Eppure, in un pugno di anni i lavoratori italiani si trovarono ad avere un salario decoroso, una casa popolare e perfino un giorno libero in più alla settimana: il sabato. E non ci si lasci ingannare dal fatto che quelle ventiquattro ore di riposo in più siano passate alla storia come «sabato fascista». Il merito vero di quanto vi fu di positivo in quei cambiamenti non fu certo delle camicie nere, ma del popolo italiano che prendeva coscienza della sua importanza, dei suoi diritti e della sua generosa umanità. Tutto è raccontato in «Lo Stato Sociale nel "Ventennio"», di Michele Giovanni Bontempo, un saggio di 272 pagine, 17 euro, i libri del Borghese. Molto ruota attorno a quelle virgolette attorno alla parola "Ventennio". Sì perché se fu vero che l'Italia conobbe l'era moderna tra il '22 e la guerra, con tutto il suo bel carico di comodità, vacanze comprese, è anche vero che premesse e seguito di questa basilare evoluzione del nostro Paese si allargano ben oltre il periodo della dittatura fascista. Non è un libro facile «Lo Stato Sociale nel "Ventennio"», ma sicuramente un testo del quale si sentiva profondamente il bisogno, se non altro per capire l'evoluzione di uno Paese e di uno Stato che prima non c'erano e che, improvvisamente, sembrarono occupare ogni attimo della vita dei cittadini. L'autore, con questa opera, si pone soprattutto una domanda: cosa è l'Italia? E dà una risposta articolata, fluida, tutta da interpretare. Una risposta che, attraverso il libro, emette una sentenza su quello che era il nostro Paese all'inizio del Novecento e un giudizio lusinghiero e di speranza, ma anche con tante ombre, su quello che è diventata l'Italia al termine del «Secolo breve». L'autore spiega punto per punto, anno per anno, gli istituti e le leggi che furono introdotti nel Regno d'Italia in materia di previdenza e lavoro a partire dal 1923. Ed è un bel raccontare perché prima del Ventennio, di queste cose, non c'era l'ombra. Si parte con i contratti collettivi di lavoro, nel '26, poi l'istituzione della Carta del Lavoro e delle norme relative alla sanità, alla maternità, alle pensioni. Che prima, semplicemente, non c'erano. L'autore ci spiega che assieme alle riforme venne portata avanti una politica per la scolarizzazione ed alfabetizzazione dell'intero Paese. Poi il riposo settimanale, gli assegni di famiglia, nel '35 il libretto del lavoro. Tutte rose e fiori? Assolutamente no. Chi dovesse ritenere che «Lo stato sociale nel "Ventennio"» sia un libro «nostalgico» non colpisce nel segno. Inevitabilmente nei diciannove capitoli si parla molto di fascismo e di fascisti, si parla molto anche di Benito Mussolini, ma il vero protagonista di questo libro è il popolo italiano, un popolo che all'inizio del racconto, negli anni della Prima Guerra mondiale ancora non è compiuto, ma va prendendo forma, si definisce e si rende conto della sua esistenza, nel tempo, crescendo. Impressionanti le pagine che Bontempo dedica alla condizione dei lavoratori nei settori agricolo e industriale nell'«Italietta» di Giolitti. Ma altrettanto impressionanti sono le pagine che descrivono un Paese, alla fine degli anni '30, che ha finalmente conquistato un po' di benessere e di tutto ha voglia meno che di andare in guerra. E invece fu lì che il fascismo trascinò il Paese. Trovando la sua tomba.

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