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Paratore e Mao tradotto in latino

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.Roba da stramazzare l'esame di latino alla «Sapienza». La cattedra era quella di Ettore Paratore, il prof provocatorio nel suo conservatorismo e perciò contestato. Ma quell'esame mi insegnato di più di quanto pretendeva. Mi ha formato sul poema di Virgilio, che ebbe in Paratore il traduttore più raffinato. Mi ha illuminato con il rigore morale dell'uomo, con l'apertura del suo sapere. Paratore, nato a Chieti nel 1907, morto giusto dieci anni fa, non è stato soltanto tra i massimi latinisti del Novecento. È stato un fine conoscitore della letteratura italiana, ritrovando in Dante, Manzoni, D'Annunzio il lascito di un Cicerone, di un Seneca, di un Petronio. Ma è stato anche un cultore della musica classica, nella quale si cullava come faceva con gli esametri dell'Eneide. Più tardi incontrai di nuovo il «terribile prof» perché era uno degli elzeviristi de «Il Tempo». E anche lì per me continuò il suo magistero a tutto tondo. Parlavamo al telefono e sottofondo sentivo, rimandato dal suo studio, un brano di Beethoven, un'ouverture di Rossini. Ma Paratore, che ha formato allievi di valore, come i successori alla sua cattedra romana Giovanni D'Anna e Michele Coccia, non è solo l'autore di una «Storia della letteratura latina» sulla quale hanno sudato generazioni di studenti. Aveva il sale dell'anticonformismo politico. Per esempio, decise di far parte del «Senato in esilio» di Umberto II. E però amava il confronto, la sfida leale dell'antagonista. Così, nella furia contestatrice del Sessantotto, in quella funesta degli anni Settanta, scelse un bel giorno di affidare ai suoi studenti la traduzione in latino di un brano di Mao. Anche quello fu un esercizio che ci fece bene.

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