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Pennacchi: "Ma quale Mondadori Il premio Strega l'ho vinto io"

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Lo scrittore Antonio Pennacchi, vincitore del premio Strega con

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«State sempre a parlare dello strapotere delle case editrici, ma hanno votato il libro non l'editore»: Antonio Pennacchi, il giorno dopo aver straconquistato il Premio Strega, si toglie qualche bel sasso dalle scarpe. Lui, quello del «Fasciocomunista», dell'«Autobus di Stalin» e di «Fascio e martello» proprio non ci sta a sentir parlare di case editrici che fanno e disfano.  Mondadori con il suo «Canale Mussolini» si è aggiudicata il più blasonato riconoscimento letterario per la quarta volta. Ma il merito è tutto suo, punto e basta. Altro che vittorie pilotate. «In bocca al lupo alla Avallone - afferma rivolgendosi alla giovane che sulla carta era la favorita - La scrittrice c'è e ha lottato fino all'ultimo. Quando si vince bisogna farlo con umiltà. Quando si perde, bisogna perdere con onestà».   E allora spiega: «Mia moglie è il vero autore, tutti i miei lavori nascono dalla sua forza», ed è proprio la moglie che l'altra sera, appena saputo della vittoria, si è affrettato ad abbracciare. «Io sembro forte ma in realtà sono il cane matto. È lei che mi incatena e mi dà la forza di lavorare». Sessant'anni, Latinense doc, carattere schietto e deciso, Pennacchi è uno che quando descrive qualcosa ti sembra di vederla. E se si deve levare qualcosa dalle scarpe lo inviti a nozze. Nel suo libro parla della sua terra, parla con il cuore di quello che conosce. Anche troppo bene. «Tremila famiglie che vennero portate, durante il fascismo, nel Lazio, a colonizzare le ex paludi pontine. Io non dò giudizi, racconto le storie della gente». Il suo libro, «Canale Mussolini», è l'avventura di una famiglia italiana che ha lavorato e si è sacrificata. Una di quelle famiglie che gli intellettuali con la puzza sotto al naso preferiscono ignorare. Le cose che ha da narrare sono tante. «Io le storie le caccio via. Ne ho così tante intorno che le mando via. Ogni famiglia ha i suoi scheletri nell'armadio, dolori veri. Si tende a nasconderli e invece bisogna tirarli fuori. Il narratore è quello che prende alcune storie e le fissa perché non vadano perse. Si vince e si perde. La vita è fatta così, è un match». Con questo libro, aggiunge, «vincere o perdere, vendere dieci o mille copie, non era importante. La cosa importante era fare bene il mio lavoro. Nella prossima vita voglio rinascere monaco e tacere». Tutta la sua arte è una corda tesa tra il desiderio di raccontare e un freno interiore a svelare i suoi pensieri. «La sottomissione al demone della letteratura è arrivata tardi. Mi sono sempre sottratto. Ho cominciato a scrivere a 36 anni, tre mesi dopo la morte di mio padre. Se non avessi iniziato sarei dovuto rinascere». Pennacchi è stato proclamato vincitore con 133 punti dopo un serratissimo testa a testa con la Avallone, autrice di «Acciaio» (Einaudi), 129 voti, soltanto 4 di distanza. Ben più lontani gli altri tre concorrenti. Terzo con 59 voti si è classificato Paolo Sorrentino con «Hanno tutti ragione» (Feltrinelli); quarto con 38 Matteo Nucci, «Sono comuni le cose degli amici» (Ponte alle Grazie); 32 punti per Lorenzo Pavolini con «Accanto alla tigre» (Fandango).  

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