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Basta con i referendum Parola di Mario Segni

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FrancescoDamato La lunga stagione dei referendum abrogativi deve essere veramente esaurita se lo riconosce, in un libro pubblicato da Rubbettino con il titolo "Niente di personale" (pagine 148, euro 14), anche un referendario incallito come Mario Segni, Mariotto per l'anagrafe ma anche per gli amici. Ai quali confesso di appartenere almeno dal 1974, quando nacque Il Giornale di Indro Montanelli, nella cui redazione romana egli era di casa. Giovane parlamentare della Dc, veniva spesso a coprirci d'incoraggiamenti, d'informazioni e di consigli, chiedendone però e ricevendone anche lui. Montanelli aveva un debole per Mariotto, dal quale si lasciò convincere persino a sostenere una causa, la prima di quelle portate nelle urne da Segni, che smentiva clamorosamente la storia del Giornale. Era il referendum, svoltosi con successo nel 1991, contro il sistema elettorale delle preferenze plurime. Che noi del Giornale avevamo invece a lungo apprezzato e alimentato proponendo ai lettori ad ogni elezione le quaterne o cinquine di candidati della Dc e di altri partiti di governo più affidabili per anticomunismo. Dalla lotta alle preferenze, sempre sotto l'impulso referendario di Segni, si passò nel 1993 ad un sistema elettorale misto, fatto per tre quarti di maggioritario a collegio uninominale e per un quarto di proporzionale a liste bloccate, quindi con la soppressione anche di quell'unica preferenza sopravvissuta al referendum del 1991. Ma la nuova legge elettorale, per quanto fosse stata la traduzione letterale del risultato referendario del 1993 da lui voluto, deluse moltissimo Segni. Che tentò poi, senza riuscirvi, di eliminare con un altro referendum quel poco di proporzionale rimasto, curiosamente destinato nel 2006 a soppiantare il collegio uninominale maggioritario. Ciò avvenne con una riforma elettorale voluta dal centrodestra, che tuttavia aveva ed ha un aspetto del maggioritario non certamente secondario come il premio cosiddetto di governabilità, in termini cospicui di seggi parlamentari, assegnato alla coalizione vincente. Irriducibile nelle sue convinzioni, Segni cavalcò un altro referendum ancora, naufragato come il precedente per un'affluenza alle urne inferiore a quella necessaria del 50 per cento più uno degli iscritti alle liste elettorali. Egli avrebbe voluto la destinazione del premio di maggioranza non alla coalizione ma alla lista più votata, in modo da obbligare i partiti minori a confluire in quelli maggiori ancor più di quanto sarebbe poi accaduto spontaneamente con la nascita del Pd a sinistra e del Pdl a destra. L'esaurimento della pratica referendaria, attribuito alla disaffezione del pubblico e ai boicottaggi partitici, obbliga adesso Segni ad affidare la sua speranza in un'Italia irreversibilmente bipolare alla volontà e capacità di Silvio Berlusconi, pur da lui criticato per il conflitto d'interessi e per i rapporti con la magistratura, di realizzare una coraggiosa riforma istituzionale di tipo presidenziale. "In tutto ciò che lo riguarda Berlusconi sbaglia raramente", scrive Mariotto.

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