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Addio a Dennis Hopper Genio malefico di "Easy Rider"

Dennis Hopper nel 1969 sul set di Easy Rider

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È quasi un riflesso condizionato: sento Dennis Hopper e penso - anzi vedo -"Easy Rider", il mito del viaggio, la cultura hippy, gli echi prepotenti della contestazione e del pacifismo americani. Attore e regista, pronto a privilegiare gli eccessi (anche nella propria vita), generoso di personaggi disordinati, spesso addirittura psicopatici oppure ai margini decisamente della norma.   Come ne "L'amico americano" di Wim Wenders, nel personaggio tenebroso del fotoreporter in "Apocalypse Now" di Coppola o nel pazzo dichiarato in "Blue Velvet" di David Lynch. Una maschera dura che avevo già cominciato a intravedere quando, quasi agli esordi, aveva affiancato James Dean nel "Gigante" di George Stevens e John Wayne nel "Grinta" da Henry Hathaway. Procedendo poi sempre di questo passo, soprattutto come attore (dopo "Easy Rider", come regista non l'ho mai molto considerato) e dandoci allora delle figure che, quasi sempre all'insegna del male, bucavano lo schermo.   Come nei panni di un alcoolizzato giocatore di basket in "Colpo vincente" di David Anspaugh che gli ottenne una candidatura all'Oscar, nel torvo figuro che campeggiava in "Una vita al massimo" di Tony Scott, sceneggiato da Quantin Tarantino, nel frenetico "Speed" di Ian De Bon o riproponendosi in preda alla follia in "Waterworld" di Kevin Costner. Ha sempre urlato, sempre rifiutato le mezze misure, detestato i semitoni. Ma è qui che si è imposto. Non c'è niente di più difficile per un attore che dare in smanie e gridare. Lui è riuscito sempre a farlo con attenta misura. Anche quando sembrava teso a superarla. Per questo lo si ricorderà. Con ammirazione.  

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