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L'incredibile vicenda

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Lastoria la fanno e la raccontano gli uomini. Non hanno però il potere di cancellarla. Possono forse nasconderla, ma non per sempre. La "damnatio memoriae" è soltanto una illusione, anche se i regimi totalitari, qualsiasi sia l'ideologia che li sostiene, si illudono continuamente di poterla praticare. «Il volontario», la più recente opera dello storico (e giornalista de "Il Tempo") Marco Patricelli ha, tra l'altro, il merito di rimuovere la scolorina che il regime sovietico aveva versato con abbondanza sulle vicende di Witold Pilecki, polacco innamorato della Polonia, l'unico uomo che si sia fatto volontariamente rinchiudere ad Auschwitz. Una storia incredibile, appassionante. Eppure per decenni dimenticata. Persino nella sua patria. Witold Pilecki nel 1940, sotto falso nome, si fece catturare come fosse per caso nel corso di una retata della Gestapo. Divenne il prigioniero n° 4859 di Auschwitz. Qui organizzò una rete clandestina di resistenza, che arrivò a contare duemila aderenti, infiltrata in tutti i settori del campo. E riuscì a denunciare al mondo l'orrore dei campi di concentramento. I suoi documenti, via Stoccolma, cominciarono ad arrivare a Londra già nel 1941, come Patricelli diligentemente dimostra. Pilecki mise a segno anche il colpo eccezionale della fuga, nell'aprile 1943. Nel 1944 partecipò alla disperata insurrezione di Varsavia e finì di nuovo prigioniero dei tedeschi, con un'altra falsa identità, sino alla fine della guerra. Dopo la liberazione la sua piena adesione all'antica battaglia per restituire una nazione ai polacchi lo portò a diffidare delle nuove autorità sovietiche. Diffidenza reciproca: per il regime comunista quell'abile e coraggioso ufficiale di cavalleria era un eroe scomodo, una presenza pericolosa per chi voleva indottrinare e soffocare un popolo spesso oltraggiato dalla storia, ma mai domo. Witold Pilecki verrà accusato di spionaggio e condannato tre volte a morte fino a quando, il 25 maggio 1948, la sentenza sarà eseguita con un colpo alla nuca. La sorte riservata ai traditori, agli agenti imperialisti, ai nemici del popolo. Una condanna in qualche modo propiziata anche dal colpevole silenzio di quello che era stato un suo compagno nella resistenza, pure lui rinchiuso ad Auschwitz: Jozef Cyrankiewicz, che nel nuovo regime assunse ruoli di primissimo piano. Su Witold Pilecki scattò invece la "damnatio memoriae" di cui si diceva. Ancora oggi, a vent'anni dalla caduta del muro di Berlino, i famigliari non sanno dove sia sepolto. La Polonia libera gli ha invece dedicato una via, a Varsavia. La strada, fa notare lo storico, in cui ha sede l'ospedale nel quale nel 2004 è morto di cancro il suo spietato accusatore al processo, Czeslaw Lapinski. Un epilogo da teoria del contrappasso, ennesima dimostrazione dell'assunto che vuole la realtà molto più fantasiosa della più sfrenata fantasia. La figura di Witold Pilecki merita, come sottolinea Marco Patricelli, il cui lavoro benché per ora solo in italiano è stato non a caso già recensito pure dalla tv polacca e dalla Pravda, di diventare «patrimonio ideale di quell'Europa che, dopo essersi dissanguata in due catastrofiche guerre mondiali» e dopo le subdole divisioni della guerra fredda, «ha trovato per scelta consapevole e concorde una sua faticosa ma irreversibile unità». Grazie anche a un ignoto ufficiale polacco, volontario ad Auschwitz.

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