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La «Femme fatale» bella e inafferrabile

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MarioBernardi Guardi Belle e impossibili. Anzi no, possibili. E fascinose, voluttuose, seducenti, ardenti, frementi, scatenate, vampiresche. Purché siano loro a tenere il gioco, puntando forte. Scegliendo. Dicendo i sì e i no, magari impastati di sofferenza e di rabbia, ma conformi a una "immagine" da difendere. Fino alla morte. Perché una "femme fatale" può buttare via la vita, ma buttarsi via, no, non è nel suo stile. Ecco dunque Mata Hari, danzatrice e spia (forse...) che, la mattina del 15 ottobre 1917, tra raffiche di vento e di pioggia, va a morte con disinvolta eleganza. È l'ultima rappresentazione della Venere Bruna, abituata a presentarsi in palcoscenico in un fastoso costume orientale con «braccialetti alle caviglie, ai polsi, sulle braccia fino al bordo delle ascelle». Poi, il corpo che si arrotola e si srotola, il vedo e non vedo delle nudità sapienti. Adesso, Mata Hari calza scarpe di Paquin e indossa un abito grigio perla. Sulle spalle un cappotto coi bordi di pelliccia. Le mani inguantate. In testa un largo cappello di paglia da cui scende un velo. Si lascia legare al palo. Al comandante del plotone sussurra: «Monsieur, vi ringrazio». Non vuole che le bendino gli occhi. «Mata Hari», in indiano - e lei ha sempre raccontato di essere nata in India, figlia di un bramino e di una bajadera - non significa forse «luce del mattino»? Mancano gli applausi, ma davvero ci vorrebbero dopo che «dodici proiettili regolamentari» hanno sigillato la «bella morte» della esotica maliarda (nel 1932, Greta Garbo le prestò il suo volto, esaltandone il fascino e il mistero). Quello di Mata Hari è uno dei ventidue ritratti di «femme fatale» disegnati da Giuseppe Scaraffia in «Femme fatale» (Vallecchi, pp. 175, euro 15), con l'elegante vivacità di sempre. Ventidue icone, tra cui la contessa di Castiglione e Sarah Bernhardt, Cristina di Belgioioso e Lou von Salomé, Valentine de Saint-Point e Ida Rubinstein. Femmine fatali, femmine strapazzamaschi. Dame, cortigiane, attrici, regine dei salotti, intellettuali militanti, muse ispiratrici, dee sinuose e capricciose. Signore della scena, interpreti superbe capaci di reggere agli anni, continuando a sfoderare come un'arma ogni residuo di fascino. Non sono streghe, meno che mai sono madonne, e dire che sono solamente donne sarebbe ridurne la portata creativa e distruttiva. Diciamo che sono esemplari di «femmina» all'ennesima potenza. Incantano al pari di sirene. Cariche di una fascinazione che viene dal lontano e dal profondo, e che è fatta di bellezza e sensualità, certo, ma soprattutto di una consapevolezza sottile e radicata: sono nate per dominare, hanno il senso del dominio. Spiriti liberi, dunque, ma predatori. Si offrono a chi vogliono, quando vogliono. Giocano sugli effetti speciali che possono essere uno sguardo, un tocco di originalità nell'abbigliamento o nell'arredamento della propria casa, un «tic» o un «tabù» che fanno la differenza. Già, le «donne fatali» sono «differenti». Femmine, abilissime nella tessitura dei «sì», dei «no» e dei «forse». Dunque, più forti dei maschi e dei maschilisti. Figuriamoci delle femministe.

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