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Il sangue dei vinti

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«Io non ho il dovere della cautela - dice Pansa - L'Italia non è per niente un paese pacificato, ma ancora diviso e in cui si combattono le rispettive memorie. E non c'è una memoria condivisa, non si può nemmeno parlare di una memoria accettata». E poi, sul fatto che il film non sia stato programmato a Venezia: «Mi è stato detto che ci si aspettava che "Il Sangue dei vinti" fosse un film "gotico". Ma che vuol dire? Sono un anarchico individualista. So cosa sono le chiese gotiche, ma non i film. E ho accettato il giudizio come tante cose italiane che non mi piacciono». Pansa ripercorre quanto è successo dopo la pubbblicazione del libro, nel 2003: bollato come revisionista, ha ricevuto migliaia di lettere «quasi tutte di donne, che dicevano tutte la stessa cosa: "la mia storia nel suo racconto non c'è». Del «Sangue dei vinti» dice infatti che si tratta di un lungo ma assolutamente incompleto elenco di nomi ed efferatezze, di fatto intraducibile in linguaggio cinematografico. E proprio per questo Pansa racconta di aver pensato del produttore Alessandro Fracassi, dopo che aveva acquistato i diritti: «È un eroe, o un pazzo o uno di grande coraggio». La vicenda raccontata nel film prende spunto, infatti, dal libro del giornalista di Casale Monferrato, ma poi, per mano degli sceneggiatori Massimo Sebastiani e Dardano Sacchetti, se ne discosta, inserendo un personaggio, il commissario di polizia interpretato da Michele Placido, «che in realtà nel libro non c'è», spiega lo scrittore. Nonostante questo del film è soddisfattissimo: «Come tutti i lavori intellettuali che cercano di aggiungere un pezzo di verità ad una visione più completa della Storia, è un fatto positivo e dunque alla fine anche un contributo a quella pacificazione che ancora non c'è stata». «Io ho 73 anni - racconta - ed è da quando ne ho venti che studio la guerra partigiana, ne ho fatto anche una tesi di laurea. So cos'è stata e il film che è stato tratto dal mio libro mi basta. L'Italia non è un paese pacificato sulla memoria delle guerra. E non lo è perché la parte che ha vinto non ha raccontato tutta la verità su quello che è accaduto. Ci sono famiglie che hanno avuto ucciso un partigiano, che è stato decorato e del quale si sa tutto. Il fratello magari era della Repubblica di Salò ed è sparito senza che se ne sapesse nulla». Poi ci tiene a una precisazione, non voler usare il termine «repubblichino». «È una parola che non mi piace. Un dispregiativo che non uso. Il libro ha rotto il muro dell'omertà sui vinti. E conoscendo bene i miei polli, questo film mi basta. E avanza». Un solo dispiacere: «Che il film, qui a Roma, non sia in concorso».

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