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A Guadalajara il contingente fascista fu abbandonato a se stesso e alla sconfitta

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Non è difficile individuare i motivi politici e ideologici di questa rimozione, perché altri italiani, antifascisti, si batterono in campo repubblicano, inseriti nelle brigate internazionali. Questa partecipazione viene ricordata, l'altra no. Secondo la vulgata, che va per la maggiore, il forte contingente inviato dal regime fascista era formato da mercenari, coscritti impiegati fraudolentemente, disoccupati attratti dal "soldo", perfino pregiudicati. Le cose non stanno in questi termini. Tra gli oltre 70 mila militari delle tre forze armate e della milizia, molti erano politicamente motivati, rispondendo alla chiamata contro la «barbarie bolscevica» (leitmotiv della propaganda fascista), quando l'ipoteca comunista pesò sulla causa repubblicana e Stalin non lesinò armi, tecnici, rifornimenti. Massimiliano Griner, con «I ragazzi del '36 - L'avventura dei fascisti italiani nella guerra civile spagnola» (Rizzoli, 388 pagine, 23 euro) - si è assunto il compito di ristabilire la verità su questo capitolo della nostra storia contemporanea. «Se pensiamo - scrive l'autore - che nella storia dell'Italia repubblicana le missioni non hanno mai portato all'estero più di 3-4 mila soldati contemporaneamente, possiamo avere un'idea dell'impegno e del costo che avrebbe progressivamente assunto l'intervento in Spagna». Una prima considerazione riguarda l'atteggiamento di Francisco Franco sull'invio di truppe italiane, deciso unilateralmente da Mussolini. «Chi le ha chieste? - obiettò l'orgoglioso Caudillo - Quando si mandano le truppe in un paese amico, si chiede almeno il permesso!». L'inizio di una incomprensione di fondo mai del tutto rimossa e dalle conseguenze molto serie. L'acronimo «Ctv» (Corpo Truppe Volontarie), che designava il contingente italiano, venne interpretato in modo perfino insultante: «Cuando Te Vas?», Quando te ne vai? Insomma, gli armamenti italiani (aerei, artiglierie, mezzi motorizzati) erano bene accetti; le truppe no, specie se operavano agli ordini di un comando autonomo. I tedeschi, intervenuti per volontà di Hitler con la «Legione Condor», furono in definitiva più attenti a non urtare certe suscettibilità e più "defilati": per loro, la Spagna era soprattutto un grande poligono sperimentale, per collaudare le armi della Wehrmacht. Per quanto la cosa possa sembrare paradossale, la conquista di Malaga, da parte delle truppe italiane, indispettì la parte franchista. E quando si assegnò al Ctv l'ambizioso obiettivo di Madrid, si crearono i presupposti del bruciante insuccesso di Guadalajara. Le truppe di Franco non appoggiarono l'avanzata della Ctv, che venne piantato in asso. Gli errori del generale Edmondo Rossi e dello stesso Mario Roatta, comandante in capo, la comparsa dei carri armati russi, la superiorità dell'aviazione repubblicana fecero la differenza. Si distinse, in quella occasione, il battaglione «Garibaldi», formato da italiani antifascisti e l'eco fu enorme. Per la prima volta, dopo l'unità d'Italia, reparti italiani tornavano a combattere gli uni contro gli altri, per cui la battaglia (8-23 marzo 1937) assume un valore politico che superò di gran lunga la portata militare dell'evento. A questo riguardo, stupisce che nella bibliografia citata dall'autore manchi qualsiasi riferimento al libro di Randolfo Pacciardi «Il battaglione Garibaldi»: Pacciardi, che rimase ferito a Guadalajara, non figura neppure nell'indice dei nomi. Ernest Hemingway, che militava nella brigata «Lincoln», formata da americani, scrisse che Guadalajara «avrebbe avuto un posto di rilievo tra le battaglie decisive per la storia dell'umanità». Si esagerava, ma l'insuccesso del Ctv era innegabile e la stampa internazionale diede fiato alle trombe. Mussolini tentò di rimediare, con un vibrato - quanto imbarazzato - discorso: «Una delle solite tempeste infuria contro questa nostra magnifica Ital

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