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Nei suoi scritti l'essenza profonda della vita quotidiana

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Potrei dire la stessa cosa di Aldo Buzzi, e del suo incantevole libro «Parliamo d'altro», se fossi sicuro che crede nel regno dei cieli, o come altro lo si voglia chiamare. Ma ho il fondato sospetto che sir Aldous, così lo chiamava scherzosamente Steinberg, abbia ben poche certezze. Una sera che eravamo allegramente in un'antica trattoria lombarda, si lasciò andare: «La vita è troppo breve, non ti dà il tempo di fartene una ragione». Nel risvolto di copertina, Buzzi ci informa che è nato a Como, la città di Plinio il Vecchio e Plinio il Giovane. È laureato in architettura, ma non ha costruito né cattedrali né ponti («Troppa responsabilità»); si è invece occupato di cinema, ha dato consigli a famosi registi, ma sempre con un distacco scettico, come a dire: «Non facciamoci illusioni, i posteri avranno ben altri problemi che occuparsi di noi». Non ha scritto molto Aldo Buzzi, nella sua lunga vita, ma ha letto quasi tutto. E siccome condivide l'opinione del suo collega defunto, William Shakespeare, («La vita... è una favola raccontata da un idiota, piena di furia e rumore, che non significa nulla») ha scelto la letteratura come gioco, scherzo, disincanto. Basta entrare in uno dei suoi "bozzetti" o "diari", per capire che non c'è niente di più affascinante di un puzzle verbale. Anche perché ogni parola può essere piena o vuota, chiara e scura: dipende da dove la metti nel tessuto della pagina. È sempre arbitrario estrapolare una frase dal contesto, ma siccome il diamante, come il diavolo, si nasconde fra i dettagli, cito un paio di battute che ho segnato a matita rossa. 1) «Dissi: "Cavolo!" improvvisamente ad alta voce. Mi ricordai quando avevo detto "cavolo" parlando alla bella farmacista del paese, e subito avevo aggiunto: "Cavolo è una parola che, per non involgarire la conversazione, si usa invece di un'altra meno innocua. "Lo so" aveva detto lei, sorridendo gentilmente, "invece di accipicchia"». 2) «Mi guardo nello specchio del barbiere, che sta lavorando con le forbici come se suonasse uno strumento musicale. "I capelli sono eterni" dice; "Dopo che siamo morti continuano a crescere. Guardi le mummie...". "Parliamo d'altro", dissi». Questa è la tecnica Buzzi: riesce a cogliere la profondità nella superficie del quotidiano. Con un grimaldello che pare solo suo, scoperchia i luoghi comuni e ce li mostra come scheletri sotto la pelle, illuminati dal raggi X. Tendenzialmente contemplativo - non dirò mai pigro - Buzzi sarebbe stato a suo agio fra i monaci del Monte Athos o in qualche monastero tibetano. Gourmet raffinato, ha sperimentato le cucine d'oriente e d'occidente; anche se, quando si arriva al dunque, non c'è niente che lo appaghi quanto una semplice trattoria lombarda. Dove «a cena, per cominciare, (si comanda) un brodo ristretto come re Nasone di Napoli, con la tempesta. C'è anche la tempestina, più piccola, ma non va bene. Tempesta, in lombardo, vuol dire grandine. È la forma della pasta, e influisce sul suo sapore». Ho detto che Buzzi ha un aspetto meditativo, quasi estatico; quando l'ho conosciuto nella casa editrice, dove dirigeva la collana di narrativa, m'è sembrato un filosofo confuciano, di quelli che parlano con occhi socchiusi e camminano un metro sopra il suolo. E invece, a conti fatti, non conosco nessuno che abbia lavorato quanto lui, e con uguale profitto. Molti scrittori gli devono moltissimo, quorum ego. Ha il dono di cogliere l'architettura del romanzo nel suo insieme, e di amputare il superfluo. Non per niente ha studiato Borromini e Palladio. Mario Soldati lo chiamava il "miglior fabbro" (come Eliot, Ezra Pound). Un'estate, al mare, Soldati doveva licenziare le bozze del suo ultimo romanzo, «L'attore», e non era tanto sicuro del finale. «Qui ci vorrebbe Buzzi», mi disse, «Cercalo». Ma Buzzi stava a New York, ospite del suo vecchio amico Steinberg. Un altro nostro amico comune era Federico Fellini, cui Buzzi co

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