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di EUGENIO ZACCHI UNA SCRITTURa circondata da silenzi densi, forse più eloquenti ...

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La sua autrice, Yasmina Reza, parigina, madre ungherese e padre russo di origini iraniane, è in Italia per presentare al pubblico italiano il suo ultimo romanzo fresco di stampa, «Uomini incapaci di farsi amare», (Bompiani, 132 pagine, 14 euro). Adam Haberberg, il protagonista, è un cinquantenne corroso dall'insuccesso dei suoi mediocri libri, e un male agli occhi che mina la sua già fragile esistenza da «vitellone» liofilizzato. La storia di questo breve, ma intenso volume, si dipana nella sequenza di immagini laconiche ma lucide, dove l'infelicità di un uomo rappresenta forse quella di una certa umanità alla deriva, ancora fiduciosa in un impossibile avvenire. «Le parole sono parentesi del silenzio: questa è una frase che mi piace ripetere», così esordisce Yasmina Reza. Rovesciando il titolo del Suo romanzo, gli uomini sono capaci di amare? «Non credo in generale che siano incapaci. Il mio personaggio è in grado di amare, potrebbe amare. È semplicemente infelice». Ed è anche in piena crisi esistenziale dopo mezzo secolo di vita? «La paura di invecchiare e di portare i segni del tempo sul volto è un timore che in genere si attribuisce alle donne. Invece io ho incontrato uomini molto più ossessionati da questo, rispetto a noi donne, più abituate: diamo tanta fiducia alle creme». Possiamo quindi affermare che i suoi personaggi rispecchiano la realtà? «I personaggi sono caratterizzati ed è sempre un pericolo generalizzare l'immagine del personaggio trasferendolo nella realtà». Come vive lo scrittore il rapporto con il successo? «È un problema generale. Sono pochi quelli che vivono del prodotto della loro penna. Per uno scrittore di venti-trent'anni non è un problema, ma un cinquantenne non può dire: "vivo di un lavoro che non è remunerato". Tanti nel passato hanno dovuto lavorare per mantenersi e non è vero che non fossero dei grandi scrittori, ma non potevano vivere della loro scrittura. Nel mio romanzo un amico chiede al protagonista se guadagna bene da scrittore: è una domanda tragica per lui, perché non è così». Secondo Lei, è la solitudine a rendere infelici gli esseri umani? «Assolutamente sì. La solitudine è una cosa terribile. È il grande tema che io affronto in ogni mia opera. Solitudini che sono di vario tipo: c'è quella positiva, buona ed è quella che cerchiamo, e poi c'è quella che non cerchiamo e che ci è imposta dai casi della vita, dalle circostanze ed è quella veramente lacerante». La paura di amare può indurre alla solitudine? «Sì, certo. Paura di amare spesso significa paura di soffrire, paura di essere rifiutati». Quanto si diverte e quanto soffre quando Lei scrive? «Nessuno dei due. Lavoro e basta.» Quando non scrive? «Allora soffro e mi diverto.» Alla fine del romanzo Lei scrive che «gli immortali non hanno storia». Crede nell'immortalità? «L'immortalità non esiste.» La nostra Autrice, che conta anche al suo attivo una sceneggiatura cinematografica e due pièce teatrali, resta una testimone attenta di una infelicità spesso percepita, ma mai sufficientemente denunciata: quella che esce dal silenzio e non dalle parole.

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