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Rolling Stones «Vendetta» contro sir Paul

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Il bilancio dell'industria discografica: lieve segno di ripresa nel 2005

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La buona notizia non è tanto relativa alle cifre, che pure hanno il loro peso, quanto al trend, diciamo pure all'andamento e alle speranze future. Inutile sottolineare che molte delle buone notizie, almeno in termini di fatturato, sono arrivate dal cosiddetto indotto, termine orribile che nella discografia vuole significare tutto ciò che non è espressamente fonografico ma che comunque contribuisce a far entrare denaro nelle casse dei gruppi discografici. Le cifre dicono che si viaggia su un accettabile +6%, stando al punto sulle vendite, che la ripartizione ha visto il 53,1% al prodotto nazionale, il 43,7% all'internazionale e il rimanente 3,2% alle compilations. Interessante notare come al di là di un notevole interesse, soprattutto presso il target più giovane, delle cosiddette indie, ovvero le etichette indipendenti, a dettare legge e a condurre i giochi del mercato sono sempre le major, cioè la grande potenza multinazionale. Si fa per dire potenza, visto che anche quest'anno, oltre ai soliti accorpamenti, si sono registrati cali di organici e chiusura di varie sedi e di filiali distributive. Un mercato che non crolla ma non decolla, che opta per la diversificazione del supporto (che ormai, grazie o per colpa della tecnologia, ha una aspettativa di vita sempre più ridotta) e che scende a patti con chi può: download, telefonia, musica senza fili, ecc. Le quote di presenza nel 2005 dicono comunque che per gli album la leadership è stata del gruppo Warner con il 26,4, seguito dalla Emi con il 21,8, a ruota la Sony-Bmg con il 19,1, dall'Universal con il 16,8 e altre piccole concentrazioni a dividersi il 15,9. L'osservatorio presenta qualche variante se si prende in esame il settore dei singoli, strano a dirsi ma tutt'ora vivo e vegeto. Qui troviamo il gruppo Sony-Bmg issato al n.1 con un consistente 28,7, seguito dall'Universal con il 27,0, a ruota la Emi con il 19,9, la Warner con il 16,0 e le altre etichette che mettono insieme l'8,4. Queste cifre parlano di concentrazione industriale, di risorse tecnologiche ma poco di musica. Il dato, per niente buono, che purtroppo rappresenta una conferma rispetto agli ultimi anni, dice che a vendere sono sempre i soliti noti, pochi e drammaticamente gli stessi. Quest'anno hanno confermato le loro sicure posizioni di mercato Ligabue («Nome e cognome»), Francesco Guccini («Anfiteatro live»), Jovanotti («Buon sangue 2005»), Max Pezzali («Tutto Max»), Renato Zero («Il dono»), Eros Ramazzotti («Calma apparente»), Vasco Rossi («Canzoni al massimo» e «Buoni o cattivi»), Laura Pausini («Resta in ascolto»), Adriano Celentano («C'è sempre un motivo»), Claudio Baglioni («Tutti qui»). Come dire i fedelissimi, gli abbonati ai primi posti in hit parade ormai da anni. Fortunatamente ci sono state anche delle sorprese. La più sorprendente è arrivata certamente dai Rolling Stones, i quali, dopo ben quarantadue anni di discografia, sono riusciti a piazzare per la prima volta un loro album al n.1 anche in Italia, dopo averlo fatto nel resto del mondo. C'erano riusciti, più volte, con i singoli, soprattutto nel periodo Sessanta-Settanta, ma mai con un album. Tutto merito di «A bigger bang», un disco energetico, moderno, senza che Jagger e Richards abbiano sconfessato il loro passato di performer strettamente legati all'evoluzione della black music. Bella sorpresa e interessante rientro in hit dopo anni anche per Loredana Bertè con «Babybertè», un album sofferto, fortemente voluto dopo anni di attesa, che ha sinceramente incuriosito ma ancora una volta penalizzato dalle radio. Conferme e ritorni per i Depeche Mode («Playing the angel»), Pino Daniele («Iguana cafè»), Simply Red («Simplified») e Biagio Antonacci («Convivendo parte 2»). Fra i gruppi due sicure rivelazioni: Franz Ferdinand («You could have it so much better») e i Negramaro («Mentre tutto scorre»); i primi supportati dalla radiofonia e dai tour, gli italiani da una sicura intuizione di Caterina Caselli. Rallegra il successo di Michal Bublè («It's time»

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