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di STEFANO MANNUCCI IMMAGINATE un pel-di-carota a Broadway.

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Fino a quel momento gli eroi di famiglia sono due: il nonno Angelo, detto "U Gandulin", tappezziere a Meda con una passionaccia per il ciclismo. Ha corso al Tour de France, mica storie. E il papà Nino D'Aurelio, cantante confidenziale. Ha portato la famiglia oltreoceano, e non gli va male davanti al microfono. Giorgio-Johnny ha 9 anni e un ghigno da birba che conserva pure adesso che si avvia alla settantina. Quella faccia di gomma è servita a Dorelli per sbancare con la commedia musicale, per la tv, il cinema, il teatro d'autore, l'avanspettacolo. È stato San Filippo Neri e lo Zeno sveviano. E di recente un papà tutto mezzi toni in "Quando arrivano le ragazze" di Avati. Ora imperversa sulle scene con il prediletto Neil Simon, i "Ragazzi irrestibili". E resta il miglior crooner italiano di sempre, ammiccante e vellutato. Il suo dvd "Swingin' Live", la ripresa di un concerto all'Auditorium di Roma con la Sinfonietta diretta dall'inossidabile Gianni Ferrio, ha venduto in un mese più di 50mila copie, dopo 15 anni di silenzio discografico. Tanto che a febbraio uscirà un nuovo cd, «niente standard - rivela lui - solo canzoni che mi è piaciuto mettere insieme». E dire che quando era un roscio monello, laggiù a New York, non voleva saperne di cantare. «Mi costrinsero a farlo. Mio padre mi aveva messo sotto l'ala protettiva di due grandi direttori d'orchestra, il Percy Faith di "Scandalo al sole", arrangiatore di Tony Bennett e Doris day. E Paul Whiteman, il preferito di Gershwin. Avevo 12 anni, e una voce ancora da bimbo. E davanti al microfono diventavo nervoso. Mi spinsero a partecipare a un concorso a Filadelfia, e ahimé lo vinsi. A quel punto mi iscrissero a una gara radiofonica per la Cbs, condotta da Robert Alda, il padre dell'attore Alan. Trionfai per 9 volte cantando "Maria Marì"». Sulla falsariga di suo padre, vollero plasmarle un nome d'arte addosso. Da D'Aurelio a Dorelli, per il pubblico italoamericano. Giravano brutti ceffi a Little Italy? «Veramente vivevamo a Manhattan. Io studiavo pianoforte e contrabbasso alla High School of Music and Art, quasi ai confini con Harlem. Ma era tutto tranquillo. E ogni lunedì, grazie a un poliziotto compiacente, entravo di soppiatto al mitico "Birdland", dove suonavano gratis mostri sacri del jazz. Gene Krupa, Oscar Peterson, Tony Wilson». Non mi riferivo a tipi loschi appartenenti alla comunità nera. Parlavo di Cosa Nostra. «Cosa vuol farmi dire? Io sono per il rispetto delle regole dello Stato. Certo, mi capitava di incontrare tipi che facevano notizia, gente da prima pagina». Per esempio? «Ero un ragazzino. Non mi sono mai mischiato con quelli». Poi, sempre negli Usa, di nuovo alla radio con Mike Bongiorno. «Alla WHOM, una stazione in lingua italiana. Sulle orme di papà». Chissà che show con Mike. È rimasta qualche registrazione? «Niente. Detesto conservare il mio materiale artistico. Mai rivisto un mio film dopo il doppiaggio. Mai riascoltato un disco dopo il missaggio finale». È un sacrilegio. «A casa mia non ho mai tenuto da parte nulla. Mi verrebbe voglia di spaccare tutto. Trovo sempre errori, imperfezioni. Non mi piaccio. A farmi da archivio hanno pensato prima mia madre, e ora Gloria e mia figlia Guendalina. Nascondono tutto, a mia insaputa». Non posso credere che lei non abbia mai avuto la curiosità di rivedersi in "Arriva Dorellik". «So che a volte lo ritrasmettono di notte in tv, ma evito». È stata un'icona generazionale. I disegnatori della Disney si ispirarono al suo personaggio per creare "Paperinik". «Davvero? Non lo sapevo. Ma quando andavo a cantare in giro, o in studio di registrazione, i miei collaboratori musicali mi prendevano in giro: "dove hai lasciato il mantello e la tuta nera con la D?"». Temeva di aver perso credibilità come artista? «No, non calcolavo i rischi, e non mi piaceva stare fermo a lungo sullo stesso tasto. Ma il ricordo più vivido di Dorellik è una vertebra schiacciata. Terry Thomas, l'attore inglese che interpretava il commissario, non andava d'accordo con la tr

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