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L'attesa di un grande dolore che sembra non arrivare mai

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La sua attualità si nutre di attese, rimandi, e realtà sempre più minacciose e precarie. Sandro Veronesi, il suo creatore, in «Caos calmo» (Bompiani, pagg.450, euro 18), restituisce integre le verità del quotidiano sentire con una scrittura forte, composta da immagini limpide e avvincenti. Lo stesso incipit colpisce davvero, perché suggella la potenza, e nello stesso tempo il limite, di una struggente umanità che malgrado le sconfitte e i dubbi, sa costruire sentimenti profondi e irreversibili. Veronesi, è più facile per lei scrivere una vicenda o realizzarla con un film? «Per me è più difficile scrivere sceneggiature, non mi sono mai sentito soddisfatto quelle volte che ho scritto per il cinema, di me stesso intendo. Scrivere per il cinema vuol dire rispettare un contratto fin dal primo giorno, ci sono condizionamenti forti. Scrivere un romanzo invece vuol dire avere un contratto morale con te stesso, e a me serve molto l'assenza di condizionamenti. In un romanzo puoi mettere quello che vuoi e non costa niente. In una sceneggiatura costa tutto troppo». Ha impiegato quattro anni e mezzo per scrivere «Caos calmo», bisogna supporre una grande fatica. «Sì, anche se molta della fatica è stata determinata da una serie di cambiamenti che ci sono stati nella mia vita. D'altronde io impiego di media cinque anni per scrivere un romanzo. Ma questa volta ci sono state molte interruzioni, tutti sanno bene che razza di trauma è un trasloco, quasi una disgrazia nel vivere, ma poi farne cinque, uno all'anno comincia a essere pesante. Quindi ho vissuto una vita senza ritmo. Mandare avanti un libro ogni giorno è una faccenda di ritmo anche se è una vita monotona. Io questo ritmo l'ho avuto soltanto negli ultimi due anni». Il suo protagonista vive in attesa di un grande dolore e quando arriva avviene una sorta di soluzione di una vera e propria nevrosi «Il romanzo è la ricerca di dare un senso a questo corto circuito di parole che comincia a frullare nella testa del protagonista. All'inizio lui lo associa a un concetto molto ingenuo, molto rassicurante, ma nel corso del romanzo il concetto si indurisce e si incupisce parecchio fino ad assumere dei significati gotici. Tutto sommato è una storia di una presa di coscienza, di un risanamento. Ed è vero che invece di elaborare il lutto slitta nell'attesa che un dolore molto forte lo raggiunga e il sollievo quotidiano nel constatare che questa botta non arriva. È quindi senza dubbio una nevrosi, è un qualcosa che ha a che fare con i nostri tempi, soprattutto per come veniamo bombardati ogni giorno dalle minacce. E nel romanzo alla fine assistiamo a un trauma da day after». La droga può essere uno strumento efficace per combattere le nevrosi? «Io ho raccontato una scena di oppio, perché, anche se è una droga pesantissima, è fuori dal circuito aids, serve per riunire il mio protagonista a suo fratello che appunto, essendo tossicodipendente a 360 gradi, porta l'oppio e rappresenta il ribelle degli anni Settanta, a differenza di Pietro Paladini che invece rappresenta il sovversivo. La scelta dell'oppio ha una ragion d'essere di tipo compositivo, e lo sballo da oppio è molto più letterario». Quanto c'è di autobiografico nel Suo romanzo? «Mi riferisco a una frase pronunciata da John Gardner, tu non sei i tuoi personaggi, sono loro a essere te. Tutto ciò che qualifica Pietro Paladini come uomo, io non lo divido con lui, è molto difficile dire che dentro di lui ci sono io, però lui è me, perché tramite lui io sono stato quattro anni e mezzo a scrivere. Mi riconosco nella casualità totale con cui Pietro Paladini trova la strada per il proprio risanamento, casualità conseguente a un evento che nessuno mai si augura, al quale però si risponde casualmente nel modo più giusto». Quando non scrive come ama trascorrere la Sua quotidianità? «Mi dedico ai miei tre figli». Progetti futuri? «Da un anno ho in mente un'idea che potrebbe diventare un romanzo, e credo che

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