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Saggio di Joseph Horowitz sull'ascesa e il declino del culto del maestro negli Stati Uniti

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Esso non ci invita tanto a capire o conoscere l'arte del grande direttore italiano, quanto a seguire l'ascesa e il declino del culto di Toscanini quale eroe americano. È quindi un lavoro da sociologo e antropologo non solo da studioso di musica, sull'America del Novecento quale fabbrica di miti, che per di più si legge come un grande romanzo d'avventure. Contrariamente a un'idea diffusa, la grande musica ebbe diritto di cittadinanza negli Stati Uniti assai prima del jazz. La Filarmonica di New York nacque nel 1842, contemporaneamente a quella di Vienna e quarant'anni prima dell'altra grande compagine europea, a Berlino. Il business musicale fu subito saldamente in mano a interpreti e impresari di origine tedesca e centroeuropea mentre la buona società non badava a spese per dimostrare che, anche su quel fronte, l'America era "the first". Nacquero anche i primi agenti, come Phineas T. Barnum, che fece fortuna con due attrazioni: un burroso sopranone svedese pare stonato, Jenny Lindt, e la tata negra, ufficialmente 161enne e dall'incerta dentatura, del presidente Washington. A cavallo tra Otto e Novecento fu la volta degli italiani, ma in un repertorio prevedibilmente operistico e canzonettistico. Il primo a sfondare fu naturalmente Enrico Caruso, la cui carriera subì una battuta d'arresto quando, in visita al Central Park con un'ammiratrice, le saltò addosso in un trasporto d'ardore davanti alla gabbia degli oranghi. E qui si arriva a un altro personaggio che in fatto di ardore, fossero musica o donne, non era secondo a nessuno: l'allora quarantenne Arturo Toscanini, già noto al pubblico del triangolo d'oro di New York-Boston-Filadelfia, ma anche lui confinato in una programmazione minore. Quando sbarcò nel 1908 per la sua prima stagione al Metropolitan accompagnato dal sovrintendente della Scala, Giulio Gatti-Casazza, Toscanini si trovò di fronte un ostacolo formidabile: Gustav Mahler, che dominava la stagione sinfonica e il grande repertorio classico-romantico quale interprete consacrato di Beethoven, Brahms e Wagner. Tra i due la competizione fu subito al calor bianco, finché l'italiano non osò e vinse sul terreno dell'avversario con un memorabile «Tristano e Isotta», la sera del 27 novembre 1909. La spedizione americana di Mahler si avviò a una malinconica conclusione e con lui il "partito tedesco" risalì le valli che aveva disceso con orgogliosa sicurezza. Come bene osserva Horowitz, lo scettro passò a Toscanini per motivi musicali ma anche psico-sociali. Al patrizio boemo modernista, malato di nervi e di petto, si sostituì un self made man, simbolo dell'ottimismo e della travolgente energia del mondo nuovo. E lo sarebbe rimasto per quasi mezzo secolo. E qui alla musica e al carattere si sovrappone l'ideologia. Siamo ormai alla vigilia della grande guerra. Toscanini milita apertamente per l'intervento italiano ma utilizza la sua crescente influenza per esortare quella che è ormai la sua seconda patria a occupare il posto che le spetta sulla scena mondiale. Quando l'Italia entra in guerra, il figlio del garibaldino di Parma non esita un attimo e salpa per la penisola, ma solo dopo un'ultima esecuzione della Nona di Beethoven, per ammonire che l'arte e lo spirito non hanno confini. In seguito vi saranno altri due lunghi periodi nella vita americana del direttore: prima alla testa della New York Philharmonic (1926-36), poi della NBC, orchestra fondata per lui (e che non gli sarebbe sopravissuta), durante la seconda guerra mondiale e fino agli anni Cinquanta, quando Toscanini lasciò la bacchetta ormai ultraottantenne. Nel frattempo, unendo al talento apprezzatissime (specie dagli americani) doti di lottatore con molto pelo sullo stomaco, aveva sbaragliato uno dopo l'altro i candidati che il "partito tedesco" cercava di contrapporgli: da Furtwängler a Mengelberg, da Klemperer a Stokowsky. Tutti illustri e non tutti tedeschi, anzi talvolta esuli in fuga dal nazismo. Ma Toscanini fu abil

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