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A cento anni dalla nascita sempre attualissima l'opera del giornalista, scrittore e disegnatore

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Sarebbe un patriarca. Morì nel 1957, ed era già un patriarca allora, appena cinquantaduenne. Anche i colleghi più vecchi (e autorevoli) lo consideravano un maestro, ed erano convinti che fosse un uomo del secolo precedente, l'Ottocento. Era facile cadere in un equivoco del genere, considerando che nel 1926 aveva fondato il suo primo giornale (L'Italiano) e pubblicato il suo primo libello («Vademecum del perfetto fascista»), di cui forse - appena pochi anni più tardi - non condivideva neppure una virgola, ma senza vergognarsene, perché una delle sue principali qualità era proprio questa. Cambiare idea (e idee), ma senza mai rinnegare quelle precedenti: una qualità da uomo maturo e navigato, quale Longanesi era fin da adolescente. Giornalista, scrittore, pittore e disegnatore, scopritore di talenti, editore, polemista, direttore per vocazione naturale, in trent'anni di attività professionale aveva fatto (e bene) le cose che ciascuno di noi riuscirebbe a fare soltanto campando un paio di secoli, ammesso che bastino. Nel 1973 (quando Longanesi se n'era andato da sedici anni), Vanni Scheiwiller curò per l'editore Rusconi (che ne fece uno splendido libro di grande formato, che costava 40 mila lire, un'enormità per quei tempi) la pubblicazione di una magnifica opera postuma, intitolata «I borghesi stanchi» nella quale sono raccolte oltre cinquanta tavole a colori uscite dai pennelli e dagli acquarelli di Longanesi, ciascuna con la sua didascalia. Un omaggio a un artista autentico, che sapeva raccontare la cronaca anche con le immagini, come il suo grande amico Mino Maccari (direttore e disegnatore del «Selvaggio», un'altra delle pubblicazioni che, fra le due guerre, avevano inizialmente inneggiato al fascismo per poi scivolare nella fronda al regime: un percorso identico a quello di Leo). Da giovane, Longanesi aveva coniato lo slogan «Il duce ha sempre ragione», ma qualche anno dopo non era più intruppato fra quelli disposti a sostenere che il duce avesse sempre ragione. All'Italiano (che cessò le pubblicazioni nel 1942), chiamò a collaborare scrittori e giornalisti del livello di Vincenzo Cardarelli, Giovanni Comisso, Luigi Barzini, Ardengo Soffici, Vitaliano Brancati, Riccardo Bacchelli, Alberto Moravia, Mino Maccari, Giuseppe Ungaretti, Emilio Cecchi, Mario Praz. Nel 1937 - per non annoiarsi - senza abbandonare l'Italiano, fondò un altro giornale, da tutti giudicato rivoluzionario nella formula e nell'impaginazione (che, manco a dirlo, curava lui personalmente): Si chiamava Omnibus, e vantava le firme di Arrigo Benedetti, Alberto Savinio, Mario Pannunzio, Elio Vittorini, Aldo Palazzeschi, Pier Antonio Quarantotti Gambini, ancora Moravia. Tutta, o quasi, l'intelligentzia che - finita la guerra e archiviato il fascismo - formò il nucleo della cultura «democratica». Compresi Pannunzio e Benedetti che fondarono (o diressero) i giornali dalle cui costole sono nati prima L'Espresso e poi Repubblica. Contemporaneamente Longanesi s'era concesso il lusso di firmare - come art director - Cinema, il quindicinale di Vittorio Mussolini. E, visto che c'era, aveva scritto le sceneggiature di alcuni film di successo. Dove fu piuttosto parco fu nella narrativa. Scrisse un solo romanzo, e neppure memorabile. A Montanelli che gli domandò il perché di quella lacuna (o parsimonia), rispose: «Perché se vuoi raccontare qualcosa, come si suol dire di organico, devi piegarti, ogni tanto al banale. Perfino Tolstoi deve dire a un certo punto che "Anna Karenina si alzò e andò ad appoggiare la fronte ai vetri della finestra". Ecco: io non sarò mai capace di seguire un'Anna Karenina in un movimento così ovvio e usuale. Che me ne frega, a me, che quella brava signora vada alla finestra? Anche la mia serva ogni tanto ci va. Eppoi si dimentica di pulire i vetri. Eppure, se vuoi scrivere un romanzo, devi rassegnarti a seguirne i personaggi anche in queste faccenduole private. E io non mi ci r

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