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Scimeca: «Il mio Giosuè per la tolleranza religiosa»

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IL FILM DEL REGISTA A VENEZIA

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Globo d'Oro della Stampa Estera per l'opera prima «Il giorno di San Sebastiano», menzione al Festival di Taormina per «I briganti di Zabut». Nel 2003 «Gli indesiderabili» con Vincent Gallo e Violante Placido, una drammatica storia di immigrazione. Dal prossimo 9 settembre Pasquale Scimeca sarà nei cinema con il suo ultimo film «La passione di Giosuè l'ebreo», distribuito dall'Istituto Luce. Una pellicola particolarmente sofferta, dai forti risvolti teologici. L'8 settembre verrà proiettata in anteprima nazionale al Festival di Venezia nelle Giornate degli Autori, il 14 settembre invece sarà in concorso a Toronto, nella prestigiosa vetrina canadese. Nel cast la brava Anna Bonaiuto, Tomi Bertorelli e Marcello Mazzarella. Nei panni di Giosuè, il protagonista, un giovane esordiente di origine libanese ma brasiliano di nascita, Leonardo Cesare Abude, che prima di questa esperienza faceva il cameriere in un bar di Milano. «È una storia alla quale sto lavorando da vari anni — ci dice Scimeca che ha finito di girare lo scorso inverno tra Cinecittà, Sicilia e Spagna — ho dovuto fare una lunga ed attenta analisi storica. Lo spunto del film infatti nasce da un preciso evento. Il resto della trama l'ho completamente inventata». Da quale fatto storico è partito? «Dall'editto di espulsione dalla Spagna degli ebrei, promulgato nel 1492 dalla regina Isabella di Castiglia. Giosuè, il cui nome è l'esatta traduzione dall'ebraico Jeshua, è costretto così ad affrontare un destino di esilio. Arriva in Sicilia e va a vivere in un villaggio sulle Madonie insieme ai parenti che si sono dovuti convertire al cattolicesimo per poter rimanere nella loro terra». Quale sarà la sua passione? «In un viaggio a Napoli incontra un personaggio realmente vissuto, Isaac Abravanel, il consigliere di Isabella, anche lui ebreo e costretto a fuggire che gli farà scoprire i numerosi punti in comune tra la religione ebraica ed il cristianesimo. Tutto questo lo trasformerà in breve tempo in una sorta di predicatore che però disturba il potere locale: l'inquisitore, il principe, il signorotto. Lo temono perché pensano che il popolo possa seguirlo nei suoi insegnamenti». Come si è avvicinato a questo tema? «Per ragioni autobiografiche. Ho scoperto di avere antenati di religione ebraica sefardita vissuti in Sicilia in quell'epoca, anche loro costretti a convertirsi». Quale rapporto ha con la religione? «Ho fatto tre anni di seminario, poi me ne sono allontanato. Aver scoperto di avere radici ebraiche mi ha di nuovo avvicinato a Dio». Il film ha una forte valenza spirituale, non ha paura che possa essere considerato difficile? «Di certo non è un film commerciale. Tuttavia è raccontato come una favola, con una struttura narrativa molto semplice. Accessibile a tutti. Ritengo che proprio in questo momento, con tutto quello che sta accadendo, occorra recuperare l'ebraicità del Cristo. Le tre grandi religioni monoteiste: cristianesimo, islam ed ebraismo, che hanno in comune lo stesso Dio e gli stessi profeti, dovrebbero impiegare il tempo che utilizzano per farsi la guerra nel cercare di approfondire la conoscenza delle comuni radici». Un parallelo con la «Passione» di Mel Gibson è inevitabile... «Non c'entra proprio nulla. Il mio film va nella direzione opposta a quello di Gibson. Io cerco di puntare l'attenzione sulla grandezza del Cristo e della sua parola, dove non c'è dolore ma solo amore ed amicizia dei popoli. "The Passion" è profondamente antigiudaico, racconta la Passione come veniva intesa nel Medio Evo».

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