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Non rinnega la vecchia passione «Ma è come una spina nel piede»

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Mikhail Baryshnikov, uno dei più grandi ballerini russi del secolo scorso - cinquantasettenne, balla ormai ben poco - del danzatore serba intatto il fisico piccolo, esile, con i glutei magri, che una maglietta blu marinaro e i pantaloni bianchi di tela mettono in piena evidenza. Gli occhi chiarissimi e un poco all'ingiù sono sempre inconfondibilmente quelli, che ti guardano senza guardarti veramente, perché non vogliono essere scrutati in profondità, e nei quali perciò tutti leggono di tutto. Persino, come la decana della critica di danza Vittoria Ottolenghi, la esangue freddezza dell'indifferenza. Però quegli occhi catturano misteriosamente. Lei ha detto davvero basta alla danza? Da anni afferma di volerla abbandonare ed ha anche confessato di «sentirsi vecchio». «Se l'ho detto, lo ripeto: non ho più molti anni per ballare ancora e perciò non faccio grandi progetti, preferisco spettacoli piccoli dove i risultati sono migliori e da cui ricavo più piacere. Non sono nemmeno più coreografo, i coreografi rischiano. Oggi è più importante per me veder crescere i figli. La danza è un fastidio, è una spina nel piede». Però resta uno dei più grandi ballerini russi, anche se ora si propone come fotografo. «La fotografia è una vecchia passione, che vivo da almeno 25 anni e che oggi mi decido a portare in pubblico più per la pressione degli amici che per convinzione: una mostra da loro organizzata in America ha avuto successo e da allora ne sono scaturite altre. Quest'ultima, che è la prima che porto in Europa e in Italia, mi ha condotto in questa bellissima cittadina. "Il viaggio" è quello che ognuno fa nella vita e che ha condotto me in tanti luoghi». L'ha anche strappato all'Unione Sovietica nel 1974 e proiettato in Occidente, secondo ballerino dopo Nureiev: cosa ne ricorda? «Niente. Sono passati trent'anni, è tutto cancellato, ho vissuto altre realtà anche nella danza, realizzando il sogno di ballare con grandissimi artisti. Sì, perché in Russia lo stalinismo aveva spazzato via tutto ciò che non fosse emozionale, che non fosse narrazione ed il popolo ormai ama solo ciò, come il balletto "Spartacus" degli anni '50». Lei, ballerino classico anche in Usa, è poi passato rapidamente alla danza contemporanea e moderna, all'uso di video e mezzi teatrali. Ha fatto anche dei film, ricevendo per "Due vite una svolta" ben tre premi nel 1978, il David di Donatello, l'Oscar e il Golden Globes. Come è avvenuto tutto ciò? «In modo molto naturale. Per la danza classica occorrono posti sacri, ma ora è quella contemporanea che tira. A New York vedo di tutto, dal flamenco al contact all'improvisation. Non credo nei film, possono molto di più il teatro e la tv per rendere popolare la danza. Qualche anno fa ho inserito nella mia compagnia "White Oak Dance Project" il coreografo newyorkese Richard Move per la teatralità antinarrativa dei suoi lavori (si è esibito anche nel RomaEuropa Festival del 2002 e 2004), con la quale riusciva a realizzare subito un contatto col pubblico». È un contatto che sempre più Baryshnikov lascia realizzare agli altri: neanche le sue foto grandi e chiare - di danzatori al trucco, di paesaggi bretoni, dei suoi figli, il minore dei quali gli ha staccato la testa e i famosi occhi - creano un contatto, immobili e impenetrabili. Lo sguardo celeste serra sempre più in profondità il segreto di Baryshnikov, la sua diversità rispetto al vulcanico Nureiev, la sua timidezza, la paura del mondo così immenso e traboccante, che pure gli ha dato la gloria.

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