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Nella sua arte la bellezza femminile è la chiave per capire la vita

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Nato a Milano nel 1914 è stato un artista riconosciuto e celebrato in tutto il mondo. I funerali saranno celebrati domani a Roma, alle 10,30 nella chiesa degli Artisti di Piazza del Popolo. di GIAN LUIGI RONDI LO SCORSO novembre, qui su «Il Tempo», avevo celebrato i suoi 90 anni. In una chiave storico-critica, senza riferimenti privati. E questo perché, mentre scrivevo, sapevo. Della sua lunga infermità che lo aveva quasi costretto al silenzio, della sua incapacità di riconoscere gli altri, delle cure quotidiane, per stargli vicino, per farlo sentire vivo, che, anche a costo di duri sacrifici, non gli lesinava un solo istante sua moglie, la nostra carissima e sempre bella Carla Del Poggio. Era da lei che avevo sue notizie al telefono anche se, neanche un mese fa, per San Luigi, la mia festa e la sua perché era stata battezzata come Maria Luisa, non avevo osato chiederle nulla, intuendo molto dal suo silenzio su di lui. Non avevo mai neanche osato chiedere di andarlo a trovare, sapendo che si sarebbe limitato a guardarmi con occhi spenti. I miei ultimi ricordi, così, risalgono a quando ero presidente della Biennale a Venezia e lui, al mio fianco, faceva parte del Consiglio direttivo dell'Ente. Lavoravamo insieme e anche se, spesso, certe riunioni lo affaticavano («non è il mio campo», diceva), passavamo poi molte sere insieme sulla terrazza dell'albergo che ci ospitava, lui estasiato di fronte al panorama che ci si spalancava di fronte, la Chiesa della Salute, specialmente quando alle sue magiche architetture dava risalto la luce della luna. «Questi splendori, però, — mi disse una sera — debbo pagarli con tutti quei temi a me estranei che tu tratti in Consiglio. Stai tranquillo — continuò — non me ne andrò, però diminuirò le mie presenze perché sento che proprio cominciano a pesarmi. Oltre a tutto — aggiunse con mia grande sorpresa — debbo seguire da vicino una trattativa che ho avviato con una casa d'aste per certe vendite cui sto pensando: ho bisogno di soldi, non lavoro più e debbo cominciare a guardarmi attorno. Anche in fretta». Non potei fare a meno di obiettargli che qualche giorno prima mi aveva regalato un olio di Clerici non certo da buttar via. Replicò: «Regali posso ancora farne, ma quello che resta bisogna che lo venda. Ammesso — mormorò con voce triste — che ci riesca, perché il mercato dell'arte è fermo da anni e non c'è più nessuno che compri». Depresso, quasi umile, senza più quella baldanza e quegli impeti non di rado perfino aggressivi che gli avevo conosciuto in gioventù quando lo chiamavamo «la piccola vendetta lombarda»: perché di statura non alta, perché milanese e perché, anche senza essere proprio vendicativo, era abbastanza permaloso. Come sapevano anche quei critici non abbastanza pronti a lodarlo. «Oggi divido i critici — mi disse un giorno — tra quelli che hanno capito "Senza pietà" e quelli che non l'hanno capito. Contento, contentissimo che tu sia tra quei primi». Difatti mi ha sempre avuto tra quelli che, durante tutta la sua splendida carriera, l'hanno apprezzato e sostenuto. Purtroppo, però, non ascoltando attorno pareri sempre unanimi, mentre invece sarebbe stato giusto che vi fossero. Come per «Il Mulino del Po», ad esempio, sicuramente il suo capolavoro. Mi rivedo al Festival di Locarno ad applaudire il film e poi a scriverne con entusiasmo, avendo al mio fianco anche molti critici stranieri pieni di lodi. Ben altra musica, invece, dopo, in Italia. In linea con il romanzo di Bacchelli, il film non metteva il male da una parte e il bene dall'altra. La politica vi era vista soprattutto come Storia, raccontando cose vere, oggettivamente; con la speranza, anche di indicare nel passato qualche occasione per riflettere sul presente senza accontentare né gli uni né gli altri. Di conseguenza ebbe subito contro tutti quelli — e, specie allora, non erano pochi — che nel far critica non pensavano solo al bello e al brutto, ma anche ad elementi del tutto irrilevanti e superflui (almeno per l'estetica). La s

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