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di TIMISOARA PINTO LA TECNO-SAGA di Laurie Anderson sulla guerra, la ...

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È nato nei laboratori della Nasa "The end of the moon", il progetto che Laurie Anderson presenterà domani e dopodomani all'Auditorium di Roma. Un'esperienza di cui l'artista newyorkese - che si autodefinisce «una consulente dall'inferno» - parla con ironia e senso di conquista. Come è nata l'idea di andare a fare l'artista residente alla Nasa? «Mi hanno contattata e mi sono incuriosita...All'inizio avevo le idee confuse ma, una volta appurato che non mi avrebbero spedito sulla Luna, ho dovuto inventarmi questo ruolo dal nulla. È la prima volta che la Nasa commissiona un progetto simile ad un musicista. Mi hanno lasciato carta bianca, ma forse da me si aspettavano un'opera multimediale di tendenza. All'epoca lavoravo ad Atene per le Olimpiadi. Anche lì avevano idee ambiziose, ma per me riduttive: perché fare il solito fastoso show? Per quello ci sono già le grandi industrie della moda e delle auto». Ci parla del progetto? «È il mio reportage di due anni di "training", ma questo è vero solo in superficie. "The end of the moon" è un lungo poema elettronico, musicato con un violino e un computer a pedali. Dal punto di vista tecnologico è più complicato di altri miei lavori, ma più agile per le apparecchiature diventate molto più piccole rispetto a quelle con cui giravo solo due anni fa. Se continua così, il prossimo tour lo farò con gli attrezzi in tasca. Parla della ricerca della libertà di pensare e di provare ad agire a modo mio». Il senso del titolo? «L'ho capito lavorando in Giappone ad un film che parlava di vendetta e giustizia. Mi hanno spiegato che quando dico giustizia, loro dicono armonia; quando parlo di diritti individuali, il corrispettivo è responsabilità individuali. Allora mi sono detta: mi trovo proprio dall'altra parte del pianeta». In che modo il suo lavoro descrive il sentimento della perdita? «Quando abbiamo cominciato a fare la guerra all'Iraq, è stato il momento in cui ho perso il mio Paese. Parlavo di una sensazione intangibile e non intendevo scrivere un pezzo politico. Non sono una sociologa, però rimane la domanda su quello che ci sta accadendo intorno. Discutere di questo tipo di politica in America è molto impopolare; le nostre guerre sono eventi mediatici, devono rimanere lì e la gente non ne parla perché è considerato noioso». Dopo la Nasa, l'Iraq? «Sento molta empatia per le truppe, ma non mi piacerebbe realizzare qualcosa in quella situazione. L'unica cosa che potrei fare sono le compilation. Ho saputo che gli propinano musica molto forte per farli gasare, ma io sceglierei cose più buffe, alla Tom Waits. C'è una sua canzone in cui si rivolge ai vicini dicendo: cosa stanno costruendo quelli là? Ascoltandola, anche un soldato potrebbe cominciare a porsi la stessa domanda».

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