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Con «Alzatevi, andiamo!» narra dell'episcopato a Cracovia Venti anni di difesa dei dissidenti contro il regime comunista

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Due anni prima, uscito il «rapporto Krusciov» su Stalin, ed esplosa la rivolta operaia a Poznan, c'era stato un terremoto ai vertici del partito comunista. Così, con l'inizio di un certo disgelo, si era anche allentata la pressione sulla Chiesa cattolica; il primate, cardinale Wyszynski, era stato liberato dopo il lungo periodo trascorso in domicilio coatto. Ma il cambiamento era solo di facciata. I carri armati sovietici avevano brutalmente soffocato la rivoluzione ungherese. Karol Wojtyla aveva allora trentotto anni. Insegnava etica a Lublino, ma continuava a svolgere il ministero pastorale tra gli universitari. E infatti, quel 4 luglio del 1958, si trovava in gita con i suoi giovani amici sui laghi Masuri. Anzi, era in canoa quando gli strillarono da riva che era arrivato un telegramma: era stato nominato vescovo ausiliare di Cracovia. Lui non se l'aspettava, ci rimase quasi male; e comunque andò da Wyszynski a firmare l'atto di accettazione. Alla fine della ordinazione episcopale, nella cattedrale del Wawel, si sentì un grido: «Lolek (Carletto), non farti buttare giù da nessuno!». Giovanni Paolo II comincia appunto da lì, da quel 4 luglio, per descrivere - nel suo nuovo libro, «Alzatevi, andiamo» - i vent'anni dell'episcopato a Cracovia. Come aveva già fatto in «Dono e Mistero», per il suo sacerdozio, Papa Wojtyla ripercorre la trama della propria esistenza, svelando i pensieri più intimi, più nascosti. Ma non è solo una rivisitazione della memoria, né un abbandonarsi ai ricordi personali. Perché, raccontando se stesso, la sua storia di vescovo, racconta contemporaneamente quelle che sono le grandi linee del suo pontificato. In altre parole, c'è come un filo rosso che unisce il periodo polacco di Karol Wojtyla e il periodo del papato. Come cioè se tutte le esperienze che lui ha fatto da sacerdote e da vescovo, tutte le prove che ha attraversato - e in particolare il confronto con il regime comunista e la partecipazione al Concilio - avessero concorso a prepararlo alla responsabilità del papato, e proprio in questo drammatico passaggio dell'umanità e della Chiesa dal secondo al terzo millennio. Per Karol Wojtyla, uomo di fede e di preghiera, e con dentro una forte tensione spirituale, mistica, non fu facile scendere sul terreno «politico». Ma dovette farlo, costretto dalle circostanze, dalle ripetute crisi polacche, il 68 studentesco, le proteste operaie del 1970 sul Baltico e del 1976 a Radom e Ursus, quando si scatenò la repressione poliziesca. Dovette farlo, Wojtyla, per opporsi a un sistema che boicottava le celebrazioni per il millennio della Polonia cristiana, e che per anni avrebbe impedito la costruzione di nuove chiese e perseguitato i gruppi giovanili. Diventò così il difensore di tutti i dissidenti, e quindi il «nemico» numero uno del regime. Disse una volta per la festa del Corpus Domini: «Come potrei tacere? Io, come vescovo, devo essere il primo servitore di questa causa. Di questa grande causa dell'uomo». E adesso si capirà meglio perché Wojtyla, che ha vissuto in prima persona il nazismo e il comunismo, una volta diventato Papa abbia difeso strenuamente la dignità di ogni persona umana e la pace nel mondo. E poi, si diceva, l'esperienza conciliare. Perché fu sul Vaticano II che Wojtyla riplasmò il suo ministero episcopale, e più tardi, da Papa, la sua missione universale. Modellando una Chiesa più comunitaria, carismatica, laicale, e meno clericale, gerarchica, istituzionale. Una Chiesa in dialogo con il mondo, e che ha fatto registrare un cambiamento radicale nei confronti della democrazia e della stessa modernità. Una Chiesa rivolta a riannodare i legami con le altre religioni, e che, per questo, ha sentito il bisogno di riconoscere le non poche «colpe» che hanno segnato la sua storia. Insomma, a quel «Non abbiate paura!», che inaugurò il pontificato wojtyliano il 22 ottobre del 1978, segue ora, come in una ideale prosecuzione, l'«Alzatevi, andiamo», che non è sol

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