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«Adulti con gli occhi chiusi»

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«I diciottenni? Li odiavo. Forse per invidia o gelosia. Poi Aurelio De Laurentiis mi ha praticamente costretto ad organizzare un incontro con Silvio che voleva parlarmi del suo soggetto. L'ho ricevuto un giorno a casa mia, pensando di farlo parlare e mandarlo via presto. Un ciclone, oltre che sbattere in ogni spigolo dell'appartamento, mi ha conquistato subito. Siamo rimasti insieme per oltre quattro ore, giocando a ping pong e mangiando. Dopo dieci giorni abbiamo iniziato a scrivere la sceneggiatura. Lavorare con Muccino è incredibile, sembrava lui più vecchio di me, ha il cinema nel sangue». Cosa l'ha incuriosita della storia? «Mi sono accorto che nessuno parla dei diciottenni, della loro fragilità. In televisione si fanno programmi per gli anziani, i bambini, gli adulti. Per i ragazzi che stanno vivendo questo particolare momento della loro vita c'è il mito delle veline o quello del "Grande fratello" che praticamente trasmette questi valori: vinco dei soldi solo se riesco a fregare il prossimo oppure devo giocare bene per entrare nella camera da letto. Non c'è nessuno in grado di rassicurli sui drammi cosmici che credono di vivere, tra pochi anni non li ricorderanno quasi più. Da questo punto di vista credo sia fondamentale il ruolo dei genitori». Quale futuro avranno? «Un mio amico psichiatra mi ha detto che tra qualche tempo ritroverà tra i suoi pazienti le cubiste ed i curatori di pubbliche relazioni di discoteche e locali notturni. Uomini e donne che fino a 30/35 anni hanno fatto un mestiere, forse redditizio ma che li ha praticamente trascinati fuori dal mondo. Una volta adulti si sentiranno confusi ed inutili perchè si accorgeranno di non aver costruito nulla». Qual'è la cosa più riuscita del film? «La metafora della vita. Quella linea di orizzonte che si vede sul mare ma che in realtà non c'è, i giovani pensano sia il futuro, irraggiungibile e misterioso». Luc. Vec.

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