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Il settimo anno la Fenice tornò a volare

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Un esempio? La ricostruzione ab imis del Gran Teatro la Fenice di Venezia in un lasso di tempo d'appena sette anni: dal 1996 al 2003. Quasi un prodigio, a considerare i biblici decenni occorsi alla rinascita del Teatro Massimo di Palermo, ed i secoli, forse, da consumarsi nella ricostruzione del Petruzzelli di Bari. E del resto, oltre sessant'anni sono stati necessarî per metter in moto la macchina che dotasse Roma d'un moderno Auditorium, in sostituzione dell'inacustico Auditorium Pio. La solenne riapertura del tempio lirico veneziano avrà luogo la sera di domenica del 14 dicembre con un concerto sinfonico diretto da Riccardo Muti: convinti noi d'un evento vippissimo e catartico, quale sa dare soltanto questa città stracolma di promesse, incantagioni e retorica. Una città d'acqua che l'acqua non ha difesa da quelle fiamme che in una notte indemoniata del Carnevale '96 hanno dissolto un teatro tenuto all'unanimità per il piú bello del mondo: inaugurato il 16 maggio del 1792 con «I Giuochi di Agrigento» di Paisiello. Ed ora lo rivedremo, e respireremo, e riveriremo com'era innanzi al misfatto: «com'era, dov'era», giusto il principio filologico che ha presieduto ai lavori architettonici ed ingegneristici, delineati in origine dall'arch. Aldo Rossi (scomparso nel 1997), e approvati dall'allora sindaco Massimo Cacciari, filosofo intricato ed accigliato bizzarramente prestato d'un tratto agli ispidi garbugli della prassi amministrativa. I costi della palingenesi? Piuttosto alti: cinquantatrè milioni d'euro, ovvero, centoquindici miliardi di vecchie lire, all'incirca. Però mai danari furono spesi meglio nel Paese dell'arte, ove per il bene della cultura si sborsa a denti strettissimi: assai meno che in molti altri Paesi d'Europa. Indirizzare questa somma alla Fenice è stata provvida risoluzione: come ad un ospedale, o scuola o museo. Introdotta da un pronao neoclassico a quattro colonne ideato dall'arch. Gian Antonio Selva, illustrata nei saloni dai busti di Goldoni, Rossini, Verdi e Wolf-Ferrari, ammantata di fregî, lievi stucchi d'oro e soffici affreschi sopra i cinque ordini di palchi, la Fenice è infatti sede preziosa della salubrità dell'anima: del suo ristoro ed elevazione alle vette della poesia. Gronda di storia illustre; la pervade il senso del Bello; è l'effigia di un'umana gioia espressa in fulgida vita di suono. Meglio ancora sarebbe stato se i ponderosi lavori posti in atto da schiere d'artigiani, operai, artisti e professionisti avessero goduto di maggior speditezza: di un'alacrità non osteggiata ed offesa dalle stolide carabattole della burocrazia italica, campionissima nel mondo; da scartoffie, carte bollate, ricorsi & controricorsi, aule giudiziarie, avvocati, commissioni che sogliono tappezzare di vacuità, protagonismi e supponenza (talvolta d'ignoranza) le infrequenti strade dell'impegno e del rinnovamento culturale ed artistico. Ma questo è altro, e vecchio, discorso (v. le scandalose peripezie intorno all'edificazione del Parco quirite della Musica). Dal 14 dicembre del corrente anno, tutte le sere che il teatro sarà aperto agli spettacoli vi potranno accedere scaturendo dalle stellate calli 990 fortunati, vale a dire 176 in piú rispetto a prima. Chi ha mai veduta la Fenice, gli sembreranno quella visione e quell'ingresso una magía: luogo acconcio agli Dei, segno della fantastica destrezza degli uomini allorché smettono d'imbestiarsi e si fanno amanti, gelosi e animosi, della poesia. A vanto dell'impresa, s'aggiunga che un inedito palcoscenico laterale ed una nuova macchina scenica, portato della piú sofisticata tecnologia, saranno in grado di suscitare nuove torme di fantasmi a maggior gloria del Teatro che ospitò, fra le altre, le "prime" di «Tancredi» e «Semiramide» di Rossini, «I Capuleti e i Montecchi» di Bellini, «Maria di Rudenz» di Donizetti, «Rigoletto», «Traviata», «Simon Boccanegra» e «Un ballo in maschera» di Verdi, «La carriera di un libertino» di Stravin

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