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di ROMOLO AUGUSTO STACCIOLI LE TRE ragioni addotte dall'amico prof.

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Ma non dirimenti. Infatti esse sono ugualmente valide se, al posto dello Stato, si mette un altro ente pubblico, quale la Regione (o la Provincia o il Comune). Sia sul piano culturale sia su quello scientifico sia su quello giuridico. Ridotta nei suoi termini essenziali, potrebbe trattarsi soltanto di una questione di scelta. In ordine con i tempi. E con la cresciuta sensibilità dei cittadini — e dei loro amministratori — verso un patrimonio culturale che — localmente — viene sempre più sentito come «proprio», e come testimonianza delle «proprie» radici e della «propria» storia. Sensibilità e sentimenti, questi, indubbiamente più forti se rivolti a «beni» non solo presenti nel territorio in cui si vive, ma anche gestiti e curati «in proprio». Tutto ciò, naturalmente, con regole e strumenti, in linea di fondo, uguali per tutti e dappertutto. Vale a dire, nell'ambito di una legge-quadro (ispirata ai principi, inderogabili, che Sisinni ha egregiamente riassunto ed esposto), emanata dal Parlamento nazionale e della cui assoluta osservanza sia tutore (o «controllore») e garante lo Stato, attraverso i suoi organi, centrali e periferici. Forse, ci vuole solo un po' di coraggio. Come ce ne vorrebbe, a proposito, per «restituire» alle comunità locali (nei vari livelli, a seconda delle opportunità, a cominciare da quelle riferibili alla tutela) i beni che loro storicamente appartengono e che troppo spesso, portati via dai «luoghi d'origine» (o «di ritrovamento»), sono andati, in passato, a costituire — e magari a «gonfiare» — quei musei «centrali» di tardo-ottocentesca memoria, che non hanno più alcuna ragion d'essere. Tanto meno a livello storico-culturale (e mentre si assegnano a Reggio Calabria e a Mazara del Vallo reperti che con quelle città non hanno a che fare, se non per via amministrativa e burocratica). Nè il Museo Topografico dell'Etruria, a Firenze, nè il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, a Roma — ciascuno da sè ma nemmeno uniti — sono in grado di documentare, nella sua interezza e nelle sue molteplici sfaccettature, la civiltà degli Etruschi. Tant'è vero che quando si vuole organizzare una mostra, al riguardo, occorre «reclutare» pezzi significativi dai musei di mezzo mondo. Allora, a che serve - oggi — tenere «in esilio» documenti che in quei due musei sono parziali, incompleti, insufficienti (oltrechè fuori luogo, nel senso letterale4 dell'espressione), mentre nei loro territori di provenienza sarebbero completi, pertinenti ed esaustivi? Basta vedere quale importanza — e quale visibilità — hanno acquistato le statue del teatro romano di Ferento, una volta trasferite al Museo di Viterbo (città che per certi versi può considerarsi «erede» di Ferento, dove peraltro non esiste un museo locale) rispetto a quando si trovavano relegate, «declassate» e praticamente ignorate, giusto nel Museo Archeologico di Firenze.

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