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di ENRICO CAVALLOTTI RICHARD Strauss sta alla musica come un pantagruelico timballo alla cucina.
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Musica wagneriana tra Otto e Novecento, tipica della Decadence, e però ad essa meglio s'addice l'ideale marchio d'un Barocco onusto e sensuoso, riccioluto e tortile. Strauss è enfatico quand'anche s'atteggi a ritrattile: l'enfasi è nel suo dna: nella sua sostanza intima e poetica. Non sa tacersi, non ripiegare sulla riflessione appartata, non stare in tentenna. Egli è asseverativo alla grande, ed il clamore è il suo metro. Non indaga, sentenzia. Con orchestre sterminate che accecano i cieli sparandogli contro i proietti delle loro fanfare d'oro. Il lusso è spregiato a favore d'uno sfuorgio madornale. La musica di Strauss, a noi parchi, non c'è mai garbata, eccezion fatta per «Salome» e, in specie, «Elektra»: due capolavori teatrali in cui il maestro bavarese rimprosciuttí il proprio linguaggio accelerandone la dissoluzione tonale e raggelandone il tripudio timbrico. E proprio la «Danza dei sette veli» dalla «Salome» s'è inteso eseguire dal maestro Jeffrey Tate al Parco della Musica, sul podio dei valorosi Ceciliani. Ma la sua lettura e la sua interpretazione, ancorché puntuali nella definizione testuale e nel segno orchestrale, hanno difettato d'intensità e di vortice. Gli è che latitava l'aura spessa dell'orgia incombente, come se la danza fosse finta: affatto spolpate e dissugate le moine della guagliona mediorientale. Né abbiamo avvertito maggior partecipazione dal direttore inglese nell'esecuzione d'una fra le pagine reboanti e pompieristiche di Strauss: «Ein Heldenleben» («Una vita d'eroe»), ove l'eroe è lui che si ritrae in pose badiali ed il nemico è il rimanente della razza bipede, che al suo confronto ci fa giusto una figura barbinissima. Bene ha fatto qui il Tate a non pigiare la mano sul fraseggio e sui volumi fonici, tuttavia tanto l'ha rattenuta da risultare, la sua bacchetta, quella d'un anacoreta che avesse in odio non solo il ventruto Vate in questione ma anche i comuni mortali: quei poveri diavoli che non hanno alcuna colpa d'esser sulla crosta terrestre e vanno barcamenandosi fra il lusco e il brusco, ponendo al riparo la loro modestia dagli strali del feroce eroe monacense.
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