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25 Aprile, la vergogna dei crimini nascosti

Una vera Liberazione non dovrebbe dimenticare l'altra memoria, quella dei vinti

Pietro De Leo
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È scomodo, specie oggi, ricordare che, nonostante si avvalori una memoria, quella dei vincitori, questo Paese dovrebbe avere “la” memoria, quella ampia e dolorosa nella sua complessità. Senza lasciar nulla sotto il tappeto. Tantomeno i crimini, efferati, di cui si macchiarono alcune fazioni partigiane. Pure loro, scrisse Giampaolo Pansa, che negli ultimi anni pagò un prezzo di linciaggio mediatico per quell'operazione storiografica che si intestò “avevano ucciso persone innocenti e inermi sulla base di semplici sospetti, spesso infondati, o sotto la spinta di un cieco odio ideologico”. Parole tratte da “La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti”. Un volume dell'enorme produzione di Pansa sul tema. L'ultimo, “La Repubblichina”, parlava di Teresa Bianchi, giovane donna che pagò la sua scelta di prestar servizio come maestra di scuola nella Repubblica di Salò. Quando tutto crollò, subì l'oltraggio partigiano in pubblica piazza, legata, rapata a zero, cosparsa di bitume in testa, privata della sua femminilità. Potè, per fortuna, ricostruirsi una vita di lì in poi. Ma a molti andò molto peggio, in un'eruzione di vendette sommarie. Luigi Canali, il “Capitano ‘Neri”, era a capo della Resistenza comasca ed ebbe un ruolo di primo piano nell'esecuzione di Benito Mussolini. La sua morte è avvolta nel mistero ma, come si intuisce anche da un memoriale di sua mamma, è probabilmente riconducibile ad un regolamento di conti fra partigiani comunisti. E nella fine violenta incappò anche la sua fidanzata, Giuseppina Tuissi, staffetta partigiana “Gianna”, che aveva preso ad indagare sulla scomparsa del suo amato. E proprio in questo giorno, per dire, di settant'anni fa cominciava il calvario di Giuseppina Ghersi, a Savona. Poco più che bambina, 13 anni, ma “colpevole” di appartenere ad una famiglia di simpatizzanti fascisti, il che le cuciva addosso il timbro di spia. A 13 anni, sì. Alcuni partigiani la prelevarono, la tennero sotto sequestro per qualche giorno, la stuprarono per poi mettere fine alla sua vita con una sventagliata di mitra, il 30 aprile. Nel centro Italia, tra Terni e Rieti, si collocano le sanguinose scorrerie della “Brigata Gramsci”. In un libro, “I Giustizieri” di Marcello Marcellini, se ne riscostruiscono le dinamiche, con rappresaglie ai danni di persone accusate di collaborazionismo con i nazifascisti. Prelevate di notte e uccise, non senza un macabro accanimento sui corpi, violati, evirati, mutilati. E non è detto che ciò accadesse dopo la morte. Poi c'è un altro capitolo di ferocia glaciale, quello contro i sacerdoti, circa 130 uccisi tra il 1944 e il 1947, raccolti in un libro dal giornalista Roberto Beretta. Il cuore dell'eccidio era il famoso “Triangolo rosso” tra Bologna, Modena e Reggio Emilia. Come Rolando Livi, seminarista di 14 anni, figlio di contadini (dunque non certo “padroni”) del reggiano. I partigiani lo sorpresero mentre studiava in un bosco, lo rinchiusero in una casa di campagna, e poi lo finirono dopo tre giorni di torture. A prova di umiliazione postuma, con la sua tonaca fecero una palla per giocare a calcio. O ancora Don Tiso Galletti, parroco di Spazzate Sassatelli di Imola, che pare avesse osato pronunciare alcune prediche di impronta anticomunista. Due uomini in motocicletta lo sorpresero all'ingresso della sua canonica. Uno scese e gli scaricò addosso una pistola. Come in un agguato mafioso.

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