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Se ne va Giampaolo Pansa, gigante del giornalismo

È morto a Roma Giampaolo Pansa, il giornalista e scrittore aveva 84 anni

Massimiliano Lenzi
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Tanti anni fa, non era d'estate, mi capitò per caso di incontrare Giampaolo Pansa sulla spiaggia di Forte dei Marmi. Da giovane cronista di un quotidiano toscano Pansa, assieme a Giorgio Bocca e Indro Montanelli, era nel mio Pantheon dei sogni, fatto di grandi articoli, editoriali critici dei potenti, di un giornalismo avvezzo, anche in Italia, a sfrondare il sistema, seppur con la partigianeria che ognuno, anche le persone più intelligenti, si porta appresso. Non lo conoscevo e mi presentai. Fu cordiale, e di lui mi colpirono gli occhi. Vivi, senza infingimenti. Per approfondire leggi anche: Giampaolo Pansa, se n'è andato il più grande di tutti Oggi, quando è uscita la notizia della morte di Giampaolo Pansa, quell'incontro per caso è stato il primo flash che mi è venuto alla mente. Gli occhi sull'Italia, le sue spigolature, le sue testardaggini. Perché Pansa era questo, un gran giornalista, ma questo è banale persino scriverlo. Nell'autunno del 2008 quando si dimise dal gruppo “Espresso” dopo 31 anni, per passare a “Il Riformista” di Antonio Polito annunciò così la sua svolta: “Non volevo invecchiare nel mio angolino dell'Espresso, mi è piaciuta l'idea di partecipare ad una sfida nuova, quella di Antonio Polito e del suo editore. Sono un lettore della prima ora del Riformista, mi piace il suo carattere libertario e aperto. Credo di essere il giornalista in attività che ha cambiato più testate: dalla Stampa al Giorno, al Corriere della Sera, a Il Messaggero a Repubblica, all'Espresso e ora a Il Riformista”. Negli anni successivi Pansa scriverà anche per Libero e per La Verità prima di tornare, di recente, al Corriere della Sera. Perché per un giornalista di razza la noia è la peggiore compagnia possibile, soprattutto se si sono raggiunti traguardi importanti. E Pansa li aveva raggiunti, mettendo su inchiostro il bestiario del nostro malcostume nazionale. Perché raccontare senza ipocrisie, questo in fondo dovrebbe essere il mestiere del giornalista, andando controcorrente, come piaceva ad Indro Montanelli, ed essendo a volte anti-italiano, come garbava a Giorgio Bocca. Come Giorgio era piemontese, ma dell'alessandrino, di Casale Monferrato dove era nato il 1 ottobre del 1935. Perché in Piemonte i giornalisti, come i vini, vengon su bene. I mezzi per raccontare, quelli poi sono tanti. I giornali certo. Ma anche la televisione dove Giampaolo Pansa, soprattutto negli anni Ottanta e Novanta, è stato spesso ospite ricercato per la sua sapidità. Di quegli anni televisivi sono consegnati alle teche, ed alla memoria di chi le ha viste, puntate di trasmissioni come “Samarcanda” e “Il rosso e il nero” di Michele Santoro sulla Rai (memorabile un duello di Pansa con Giuliano Ferrara, siamo nei primi anni Novanta, a “Il rosso e il nero”, sul Psi e la Olivetti). E poi, dopo i giornali e le televisioni, i libri. Pansa ha scritto numerosi romanzi e saggi di storia contemporanea. Nel 2003 con “Il sangue dei vinti” - dal quale è stato poi tratto l'omonimo film di Michele Soavi - ha indagato nelle zone d'ombra della Resistenza, denunciando gli orrori della guerra civile e i crimini compiuti da ex partigiani dopo la Liberazione. Un tema che Pansa ha affrontato e cercato di sviluppare anche in altre opere, come “Sconosciuto 1945” (2005), “La grande bugia” (2006), “I gendarmi della memoria” (2007) e “I tre inverni della paura” (2008), un affresco della borghesia agraria negli anni terribili tra il 1943 e il 1946 nel cuore dell'Emilia ‘rossa', il triangolo tra Parma, Reggio Emilia e Modena. La sua saggistica storica sui lati oscuri della Resistenza, negli anni, era riuscita pure nel miracolo di renderlo simpatico alla destra, lui che certo di destra non era ma che amava ripetere con la curiosità che tutti i giornalisti dovrebbero avere, “se la storia la facciamo raccontare solo a chi ha vinto, che storia è?”. Di libri Pansa ne ha scritti anche altri, come ad esempio “La bambina dalle mani sporche” una storia di amore e politica ai tempi di Tangentopoli, diventato poi anch'esso un film per la regia di Renzo Martinelli. Ci fermiamo qui, anche se la sua biografia potrebbe continuare, essendo lunga una vita intera. Una vita che non gli ha risparmiato nulla, neppure il dolore più grande come la morte del figlio Alessandro, nell'autunno del 2017. Un dolore che niente riusciva a lenire, neppure la scrittura: “Con la tua partenza, quel mondo è finito del tutto. Da una settimana cerco di non pensare che tu, caro Alessandro, te ne sei andato chissà dove. E ti confesso che ho il terrore di sognarti. Però, mio bel fieu, mio bel ragazzo, ti accoglierò sempre a braccia aperte. Ti voglio bene. Giampaolo, il tuo papà”. Perché a volte, anche saper scrivere bene, non serve poi a molto. Come oggi.  

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