«Un buon pezzo? Si scrive con i piedi»
di Emilio Jattarelli Si è addormentato nell'ora dei lupi, in quel lasso di tempo in cui l'oscurità della notte cede il passo ai primi chiarori dell'alba. Con discrezione, in silenzio, com'era nel...
Si è addormentato nell'ora dei lupi, in quel lasso di tempo in cui l'oscurità della notte cede il passo ai primi chiarori dell'alba. Con discrezione, in silenzio, com'era nel suo stile. Angelo era così, un uomo schivo, riservato, dotato di un cuore generoso, sempre pronto ad aiutare chi aveva bisogno di una mano, ma con discrezione, con signorilità, con un senso istintivo della solidarietà e dell'amicizia. E questo non soltanto nella vita privata ma anche, e soprattutto, nell'esercizio della sua professione. Maestro autentico di giornalismo ha saputo creare, con la sua scuola e il suo esempio, decine e decine di giornalisti, insegnando loro con pazienza e tenacia, i mille segreti dell'affascinante ma difficile mestiere del cronista. Un buon articolo di cronaca si scrive soprattutto con i piedi, amava ripetere amabilmente. Un paradosso, naturalmente, ma tanto bastava per far intendere che le notizie bisogna innanzitutto andarsele a cercare. Che occorre andare di persona sui luoghi, vedere con i propri occhi, raccogliere le testimonianze, verificare tutte le circostanze, e poi alla fine mettersi davanti alla macchina per scrivere e buttare giù il pezzo. Sembrano cose ovvie, scontate, ma lui amava ricordarle, soprattutto in questi ultimi anni in cui molti colleghi preferiscono non sporcarsi le scarpe, standosene comodamente seduti in una stanza d'albergo o in sala stampa a rimettere a posto e in bella scrittura le varie note d'agenzia. Lui, Angelo, apparteneva alla vecchia scuola. Quando ci fu il terremoto del Belice, lui era lì, tra le macerie, insieme ai primi soccorritori pronto a fare un primo veritiero bilancio di quell'immane tragedia. Durante l'alluvione di Firenze, era lì, in mezzo al fango che aveva invaso la Galleria degli Uffizi, a dare una mano a quell'"esercito degli angeli", come furono definiti quelle migliaia di volontari giunti da ogni parte d'Italia per liberare la città invada dalle acque. Sempre in prima fila, come nel Vajont, in Irpinia, a Seveso e in tanti altri luoghi. Aveva non soltanto la capacità di osservare, di annotare, di cogliere i tanti lati anche personali di quelle tragedie, ma anche quella di saperli anche raccontare, in un beve spazio di tempo, in maniera lucida, appassionata, con uno stile da scrittore finissimo, attraverso una scrittura asciutta ma elegante, colta ma comprensibile. I resoconti dei processi più famosi di cui è stato testimone nel corso della sua lunga carriera di cronista giudiziario ne sono un'altra fedele testimonianza. I suoi articoli sul delitto Martirano e il processo che ne seguì contro il marito Giovanni Fenaroli, furono tra i più seguiti di tutta la storia del giornale. Così come il caso Bebawi, l'omicidio del ventisettenne Faruk Chourbagi vicino via Veneto, o come il mistero di Antonietta Longo, la ragazza decapitata nel lago di Castel Gandolfo, o come ancora il delitto Montesi, il cui corpo fu trovato una mattina di primavera sulla battigia di Capocotta. Su questo giallo si innescò una gigantesca campagna giornalistica che coinvolse gran parte del mondo della Roma bene, importanti uomini politici, alti prelati e anche alcuni rappresentanti delle forze dell'ordine. Frignani riuscì a raccontare tutto con grande equilibrio e onestà intellettuale, senza mai lasciarsi trascinare dal sensazionalismo, in ossequio a quel rigore che facevano di lui un autentico "cavallo di razza", così come fu definito dal suo primo direttore prima, Renato Angiolillo, e da Gianni Letta poi.
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