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Sangue nella strada della Dolce Vita

Christa Wanninger, 23 anni, venne uccisa con sette coltellate Il presunto omicida giudicato incapace di intendere e volere

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È il 1960 quando il film di Federico Fellini esce nelle sale. Racconta una Roma diventata meta di star internazionali del cinema e di paparazzi che le inseguono per immortalarne vizi e stravizi, scenate di gelosia e sbronze finite a cazzotti. Uno spettacolo nello spettacolo, una passerella rutilante ed esclusiva che ha per centro via Veneto e i suoi locali. Ma tre anni dopo la strada della Dolce Vita viene sporcata dal sangue di una ragazza, quello della «bellissima tedeschina» Christa Wanninger, come la definiscono i giornali dell'epoca, che sparano per settimane in prima pagina titoli di cartone sull'efferato delitto. Il suo presunto assassino viene arrestato ma assolto in primo grado per insufficienza di prove e, in secondo, considerato incapace di intendere e volere al momento dei fatti. E i fatti avvengono il 2 maggio 1963. Sono passate da poco le 14,30 quando la polizia arriva in via Emilia 81. Sul pianerottolo del quarto piano c'è una ragazza agonizzante che indossa un cappotto verde. L'ascensore è bloccato, le porte interne aperte, quella interna chiusa. La ferita è Christa, attrice e fotomodella, è nata 23 anni prima a Monaco di Baviera. Arriverà già cadavere al policlinico Umberto I. È stata accoltellata sette volte. E sette persone hanno visto allontanarsi lungo le scale un uomo che, con tutta probabilità, è il suo carnefice. Una di loro è la portiera, Francesca Barbonetti. La donna si trova al terzo piano per recapitare una raccomandata, quando sente «un forte urlo provenire dal piano superiore». Sale e vede un uomo sui 30-32 anni, alto circa un metro e 75, robusto, con un abito scuro che sta scendendo. «Gli chiesi cosa fosse accaduto - riferisce la Barbonetti alla polizia - e mi rispose: "una signora che strilla, non so"». Viene disegnato un identikit ma le indagini non fanno molti passi in avanti. I tentativi di stabilire un nesso fra la vittima e il suo killer falliscono. E la stampa si scatena in modo morboso, anche perché quello della tedesca venuta a cercare fortuna nella città della Dolce Vita era il diciassettesimo delitto irrisolto nella Capitale dal dopoguerra. Nei guai finisce pure l'amica e connazionale che Christa stava andando a trovare in via Emilia, Gerda Hodapp. La donna, che apre con ritardo la porta di casa alla polizia, sostiene che al momento dell'omicidio stava dormendo e, se l'amica ha suonato al campanello, lei non l'ha sentita. E non l'ha sentita neppure quando ha urlato dopo essere stata ferita a morte. Una «sordità» che suona sospetta agli investigatori e che la fa finire nei guai. Il 6 maggio viene arrestata per favoreggiamento. Ma di chi? E perché? Il movente è inesistente. La Wanninger non aveva nemici e non c'era ragione di ucciderla. Nemmeno una. La «svolta» arriva dieci mesi dopo. Il 6 marzo 1964 un uomo chiama la redazione del Momento Sera. Sostiene di avere importanti informazioni sul caso e chiede un compenso di cinque milioni. L'anonimo rivela un dettaglio non pubblicato sui giornali: la vittima indossava un cappotto verde. Il cronista gli dice di chiamare più tardi e, intanto, allerta i carabinieri. Quella stessa sera il telefonista viene sorpreso in una cabina telefonica di piazza San Silvestro. Si chiama Guido Pierri, ha 32 anni e il suo volto corrisponde a quello dell'identikit. In tasca ha un coltello lungo 30 centimetri. Non solo. A casa ha quattro diari che fanno pensare a uno psicopatico criminale. L'ultimo si chiude con una poesia datata 2.5.63, ore 15 circa. Mezz'ora dopo l'omicidio. I primi versi sono: «Da quando nacqui, non sono che il servitore di un Mostro...». Poi più nulla. Pierri è stato visto spesso nei luoghi del delitto ed è stato anche riconosciuto da alcuni testimoni oculari, tre dei quattro che l'hanno visto meglio. Lui si difende dicendo che sono tutte fantasie, che voleva scrivere un romanzo e simulava pedinamenti di donne e assassinii per immedesimarsi nella parte. Il 13 maggio ottiene la libertà provvisoria senza neanche essere interrogato dal magistrato. Poi, inspiegabilmente, il 10 febbraio 1965 il pm Dore dà parere favorevole alla restituzione dei diari sequestrati a Pierri. Cioè riconsegna le prove al probabile assassino. Il tempo passa. Il mondo cambia. Il 22 aprile 1971 la sorella di Christa, dopo un articolo di un settimanale tedesco, presenta un esposto alla Corte d'Appello. Le indagini ripartono. Si seguono altre piste, che, però, si rivelano infondate. Spunta anche quella legata ai «soliti» servizi segreti, a un traffico d'armi. E anche questa finisce nel nulla. Infine si riconsidera l'ipotesi-Pieri. E il 17 luglio 1974 all'uomo, che ormai si è sposato e vive alla periferia di Carrara, viene notificata una comunicazione giudiziaria con l'accusa di omicidio volontario. Il 23 dicembre del '76 arriva anche il mandato di cattura. Ma le «sorprese» non sono finite. Il processo si apre un anno esatto dopo, a quindici dal delitto di via Emilia. Il 10 gennaio del 1978 Pierri viene assolto per insufficienza di prove, anxche s euna perizia lo riconosce incapace di intendere e di volere. Consulenza che, invece, sarà raccolta dai giudici d'Appello nell'85. In sostanza Pierri viene considerato colpevole ma non può andare in carcere a causa delle sue condizioni psichiche. E il movente? Non c'è. Pierri non conosceva la vittima, avrebbe ucciso per essere qualcuno, per compiere un atto perfetto, «puro». Christa ha avuto solo una «colpa»: trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. È il 1960 quando il film di Federico Fellini esce nelle sale. Racconta una Roma diventata meta di star internazionali del cinema e di paparazzi che le inseguono per immortalarne vizi e stravizi, scenate di gelosia e sbronze finite a cazzotti. Uno spettacolo nello spettacolo, una passerella rutilante ed esclusiva che ha per centro via Veneto e i suoi locali. Ma tre anni dopo la strada della Dolce Vita viene sporcata dal sangue di una ragazza, quello della «bellissima tedeschina» Christa Wanninger, come la definiscono i giornali dell'epoca, che sparano per settimane in prima pagina titoli di cartone sull'efferato delitto. Il suo presunto assassino viene arrestato ma assolto in primo grado per insufficienza di prove e, in secondo, considerato incapace di intendere e volere al momento dei fatti. E i fatti avvengono il 2 maggio 1963. Sono passate da poco le 14,30 quando la polizia arriva in via Emilia 81. Sul pianerottolo del quarto piano c'è una ragazza agonizzante che indossa un cappotto verde. L'ascensore è bloccato, le porte interne aperte, quella esterna chiusa. La ferita è Christa, attrice e fotomodella, è nata 23 anni prima a Monaco di Baviera. Arriverà già cadavere al policlinico Umberto I. È stata accoltellata sette volte. E sette persone hanno visto allontanarsi lungo le scale un uomo che, con tutta probabilità, è il suo carnefice. Una di loro è la portiera, Francesca Barbonetti. La donna si trova al terzo piano per recapitare una raccomandata, quando sente «un forte urlo provenire dal piano superiore». Sale e vede un uomo sui 30-32 anni, alto circa un metro e 75, robusto, con un abito scuro che sta scendendo. «Gli ho chiesto cosa fosse accaduto - riferisce la Barbonetti alla polizia - e mi ha risposto: "una signora che strilla, non so"». Viene disegnato un identikit, ma le indagini non fanno molti passi in avanti. I tentativi di stabilire un nesso fra la vittima e il suo killer falliscono. E la stampa si scatena in modo morboso, anche perché quello della tedesca venuta a cercare fortuna nella città della Dolce Vita era il diciassettesimo delitto irrisolto nella Capitale dal dopoguerra. Nei guai finisce pure l'amica e connazionale che Christa stava andando a trovare in via Emilia, Gerda Hodapp. La donna, che apre con ritardo la porta di casa alla polizia, sostiene che al momento dell'omicidio stava dormendo e, se l'amica ha suonato al campanello, lei non l'ha sentita. E non l'ha sentita neppure quando ha urlato dopo essere stata ferita a morte. Una «sordità» che suona sospetta agli investigatori e che la mette nei guai. Il 6 maggio viene arrestata per favoreggiamento. Ma di chi? E perché? Il movente è inesistente. La Wanninger non aveva nemici e non c'era ragione di ucciderla. Nemmeno una. La «svolta» arriva dieci mesi dopo. Il 6 marzo 1964 un uomo chiama la redazione del Momento Sera. Sostiene di avere importanti informazioni sul caso e chiede un compenso di cinque milioni. L'anonimo rivela un dettaglio non pubblicato sui giornali: la vittima indossava un cappotto verde. Il cronista gli dice di chiamare più tardi e, intanto, allerta i carabinieri. Quella stessa sera il telefonista viene sorpreso in una cabina telefonica di piazza San Silvestro. Si chiama Guido Pierri, ha 32 anni e il suo volto corrisponde a quello dell'identikit. In tasca ha un coltello lungo 30 centimetri. Non solo. A casa gli trovano quattro diari che fanno pensare a uno psicopatico criminale. L'ultimo si chiude con una poesia datata 2.5.63, ore 15 circa. Mezz'ora dopo l'omicidio. I primi versi sono: «Da quando nacqui, non sono che il servitore di un Mostro...». Poi più nulla. Pierri è stato visto spesso nei luoghi del delitto ed è stato anche riconosciuto da alcuni testimoni oculari, tre dei quattro che l'hanno visto meglio. Lui si difende dicendo che sono tutte fantasie, che voleva scrivere un romanzo e simulava pedinamenti di donne e assassinii per immedesimarsi nella parte. Il 13 maggio ottiene la libertà provvisoria senza neanche essere interrogato dal magistrato. Poi, inspiegabilmente, il 10 febbraio 1965 il pm dà parere favorevole alla restituzione dei diari sequestrati a Pierri. Cioè riconsegna le prove al probabile assassino. Il tempo passa. Il mondo cambia. Il 22 aprile 1971 la sorella di Christa, dopo un articolo di un settimanale tedesco, presenta un esposto alla Corte d'Appello. Le indagini ripartono. Si seguono altre piste, che, però, si rivelano infondate. Spunta anche quella legata ai «soliti» servizi segreti, a un traffico d'armi. E anche questa finisce nel nulla. Infine si riconsidera l'ipotesi-Pierri. E il 17 luglio 1974 all'uomo, che ormai si è sposato e vive alla periferia di Carrara, viene notificata una comunicazione giudiziaria con l'accusa di omicidio volontario. Il 23 dicembre del '76 arriva anche il mandato di cattura. Ma le «sorprese» continuano. Il processo si apre un anno esatto dopo, a quindici dal delitto di via Emilia. Il 10 gennaio del 1978 Pierri viene assolto per insufficienza di prove, anche se una perizia lo riconosce incapace di intendere e di volere. Consulenza che, invece, sarà raccolta dai giudici d'Appello nell'85. In sostanza Pierri viene considerato colpevole ma non può andare in carcere a causa delle sue condizioni psichiche. E il movente? Non c'è. Pierri non conosceva la vittima, avrebbe ucciso per essere qualcuno, per compiere un atto perfetto, «puro». Christa ha avuto solo una «colpa»: trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato.

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