La rivoluzione morbida ma inesorabile di Leone. Il retroscena di Bisignani
La transizione tra Bergoglio e Prevost non è una successione: è una cesura silenziosa, quasi chirurgica nella sua compostezza. Non c’è stato un vero «dopo Francesco». C’è stato, piuttosto, un ordinato «archiviare» Francesco. Come se la storia avesse deciso di riprendere il discorso da dove Benedetto XVI lo aveva lasciato in sospeso. Il segnale è arrivato presto. Alla presenza dell’ormai «risuscitato» monsignor Georg Gänswein, figura-simbolo del papato ratzingeriano, Papa Leone XIV ha conferito al maestro Riccardo Muti, al termine del Concerto di Natale, lo speciale «Premio Ratzinger», solitamente riservato a teologi e filosofi. Un gesto eloquente che suggerisce l’idea di un pontificato saltato.
Il governo di Bergoglio è andato avanti per strappi, forzature, decisioni personali improvvise elevate a magistero morale, trasformando la Chiesa in un laboratorio politico-emotivo, dove il gesto valeva più della struttura, il giudizio più del diritto, l’umore più dei fatti.
Simpatia e antipatia hanno spesso preso il posto della competenza, persino di quella medica relativa alla salute del Pontefice stesso. Il risultato è noto: una Curia stanca, un Vaticano finanziariamente opaco, donazioni americane e tedesche in ritirata, un episcopato disorientato.
Fuori programma in Senato, arriva Papa Leone: mostra e incontro con La Russa
Molti prelati hanno denunciato una Chiesa italiana umiliata e ridotta ai margini, con vescovi – italiani e argentini nominati direttamente da Bergoglio – scelti più per prossimità che per cultura ecclesiale o esperienza e con la Segreteria di Stato - che finalmente oggi ha ripreso vigore - trattata alla stregua di un convitato di pietra. Del resto, il buongiorno si era visto sin dal mattino.
«Non sono un principe rinascimentale, chiaro?» urlò Francesco il pomeriggio stesso della sua elezione quando avrebbe dovuto partecipare, come da tradizione, insieme alle più alte cariche italiane, al concerto offertogli dalla Rai. La sua partecipazione inizialmente annunciata e confermata, si trasformò in un inaspettato e categorico diniego pochi istanti prima di entrare nell’Aula Nervi. I commentatori più benevoli di allora lo giustificarono parlando di un carisma potente, ma disordinato.
Ed è qui che torniamo a Leone XIV. Non un riformatore urlato, ma un restauratore del metodo. Non ha bisogno di smentire Francesco: gli basta non imitarlo. Dove Bergoglio improvvisava, Leone programma. Dove il papa "gaucho" ha spesso trasformato la misericordia in un’arma di conflitto politico, il pontefice "yankee", che di yankee ogni giorno ha di meno, la riporta nel recinto della dottrina e delle forme che - come insegnava Giustiniano - sono l’unica garanzia, anche per un Papa, con le migliori intenzioni.
Leone conosce il peso dei simboli e li usa con metodo. Nei giorni feriali, l’argento: croce e anello, sobrietà controllata. Ma quando entrano in scena i capi di Stato o si varcano i confini del Vaticano, l’argento sparisce ed è il momento dell’oro, a segnare la massima solennità della Chiesa cattolica. Non una mera scelta estetica, ma grammatica del potere. È la stessa grammatica di Paolo VI che, in piazza San Marco a Venezia, davanti al patriarca Luciani, non fece discorsi: si tolse la stola e gliela posò sulle spalle.
Orlandi, perché è indagata l'amica: i "non ricordo" in quei minuti cruciali
Non un atto di cortesia, ma un’investitura: il patriarca di Venezia, Albino Luciano divenne Papa. Il resto è storia.
La discontinuità tra Francesco e Leone si coglie anche nell’eclissi del cerchio magico che faceva a gara nell’esibire una tale confidenza con il Pontefice da volergli dare del tu, chiamandolo per nome, se non addirittura Jorge. Nel frattempo, senza clamore, la Curia ha ricominciato a funzionare: fine delle purghe ideologiche, ridimensionamento dei "profeti da conferenza", scomparsa di figure opache - con o senza tonaca - del vecchio e del nuovo mondo che, attraverso cooperative e fondazioni, hanno saccheggiato beni della Chiesa, approfittando di un Papa stanco e malato.
Leone XIV non cerca l’applauso. Cerca il controllo e la programmazione e legge i dossier, poi decide. Con scelte tanto ponderate quanto irreversibili. E se Leone non chiede scusa alla storia, Bergoglio ha invece finito per esporre la Chiesa come imputato permanente davanti al mondo laico, spesso apertamente anticattolico, condannando intere Chiese nazionali – come quella canadese, australiana, polacca e belga – a subire campagne di accuse poi rivelatesi in gran parte infondate, strumentali se non addirittura estorsive.
Per non parlare del processo-farsa dinanzi al Tribunale vaticano contro il cardinale Becciu, peraltro già "condannato" da Bergoglio prima del processo, in spregio perfino alla tanto sbandierata misericordia. Ed è forse anche per questo che ora Prevost dovrà intervenire anche per mettere ordine nella Corte di Cassazione vaticana, ridicolizzata negli ultimi anni dalla presenza di cardinali a volte privi di un’adeguata formazione giuridica, a volte in evidente conflitto di competenza.
Chi oggi parla di «continuità» mente, per pigrizia o per convenienza. Come certi gesuiti che, pur di evitarsi il "viaggio" in Sud Africa per formare i novizi, hanno rispolverato l’abito talare della Compagnia di Gesù per guadagnare benevolenza e scansare una probabile resa dei conti.
Il Papa non ha bisogno di dire «io sono diverso». Gli basta governare. E infatti ha cominciato a smontare, una dopo l’altra, le commissioni inutili - dall’economia alla dottrina - ereditate dal sistema bergogliano. A partire dalla Commissio de donationibus pro Sancta Sede, istituita da Francesco durante il ricovero al Policlinico Gemelli, tra una polmonite ab ingestis e l’altra. Un organismo che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto razionalizzare il sistema delle donazioni ma che poi ha finito per garantire ai suoi membri viaggi, convegni e tournée, con le destinazioni più varie, Stati Uniti in testa.
Papa Leone XIV l’ha soppressa con un chirografo del 29 settembre. Senza spiegazioni. Senza rumore. Non c’è stato bisogno di processi pubblici né di epurazioni Urbi et Orbi. Il sistema bergogliano viene smontato pezzo dopo pezzo con un metodo sottile, quasi impercettibile. Così come Prevost ha acceso un faro sulla sanità vaticana in profondo rosso a partire dall’ospedale Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo fino all’IDI e non gradisce l’insistenza di personalità espressione della politica italiana e dei poteri forti, come l’ex ministro Daniele Franco, presidente del Gemelli, che intendono presentargli fantasiose soluzioni salvifiche.
Nella Chiesa le transizioni non si annunciano: si riconoscono nei dettagli. Oggi la tomba di Francesco a Santa Maria Maggiore non è più una meta, ma una breve sosta nel percorso della basilica. Il tempo che decanta, non che cancella. Ecclesia manet, pontifices transeunt.
Dai blog
Generazione AI: tra i giovani italiani ChatGPT sorpassa TikTok e Instagram
A Sanremo Conti scommette sui giovani: chi c'è nel cast
Lazio, due squilli nel deserto