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Yoav Eller: "Dalla tragedia del 7 ottobre la società israeliana deve rinascere partendo dal basso"

Foto: Ansa

Claudia Conte
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Dott. Eller, lei ha definito questo momento storico come un “momento definitorio”. Cosa intende esattamente?
“Siamo di fronte a un passaggio storico che può ridefinire il futuro dello Stato di Israele. Dopo due anni, segnati da dolore, sacrificio e guerra, stiamo per assistere a qualcosa di straordinario: il ritorno a casa dei nostri ostaggi. È un momento che, se vissuto con consapevolezza, può segnare l’inizio di un nuovo corso, non solo sul piano della sicurezza, ma anche su quello morale e sociale".

Perché questo ritorno è così sentito dall’intera società israeliana?
“Israele è un Paese piccolo, fortemente legato al concetto di famiglia e basato su una profonda tradizione ebraica che sacralizza la vita e la responsabilità reciproca. Nonostante le divisioni politiche, ogni israeliano ha percepito gli ostaggi come parte della propria famiglia. Questo legame collettivo ha creato un’unità rara: tutti abbiamo aspettato il momento in cui avremmo potuto dire “sono vivi e sono tornati a casa”. È un'emozione che accomuna l’intero popolo".

Questo momento arriva dopo un prezzo molto alto. Cosa ci lascia il 7 ottobre e la guerra che è seguita?
“Il 7 ottobre è stato il giorno più tragico nella storia di Israele. La sofferenza è stata immensa, e da allora abbiamo perso molti dei nostri migliori giovani. Intere generazioni di soldati e riservisti hanno dato tutto per difendere il Paese e salvare gli ostaggi. È un dolore che resterà con noi per sempre, e che non può essere cancellato".

E ora? Cosa ci aspetta dopo questo momento?
“Ora dobbiamo chiederci cosa fare con tutto quello che è successo. Il ritorno degli ostaggi deve segnare l’inizio di una nuova fase. Non ci sono più israeliani prigionieri di Hamas, abbiamo pagato un prezzo altissimo, e la domanda è: cosa impariamo da tutto questo? Come traduciamo il sacrificio in una trasformazione reale?”.

Lei sostiene che Israele oggi sia più sicuro sul fronte esterno. In che senso?
“Abbiamo indebolito significativamente le minacce principali: Hamas, Hezbollah e l’influenza iraniana. Sebbene esistano ancora pericoli a medio e lungo termine - penso al ruolo crescente della Turchia o all’ideologia radicale che persiste a Gaza - possiamo dire che, rispetto al 7 ottobre, abbiamo rimosso minacce che si erano rivelate esistenziali".

Ma è altrettanto ottimista sul fronte interno?
“No, ed è qui che sta il nodo più critico. La società israeliana è oggi più divisa di quanto non fosse due anni fa. Già prima del massacro eravamo in una crisi politica e sociale profonda, caratterizzata da una crescente sfiducia tra i diversi gruppi che compongono il nostro popolo. La guerra ha solo approfondito queste fratture".

Qual è quindi la lezione più importante da trarre dal 7 ottobre?
“Che non basta avere un esercito forte. Serve una società coesa, capace di prendere decisioni condivise sui temi cruciali del nostro futuro. Se non ci impegniamo a sanare le divisioni interne, rischiamo di compromettere tutto ciò che abbiamo difeso in questi due anni".

Cosa significa, concretamente, avviare un “processo di riparazione”?
“Significa affrontare i problemi invece di nasconderli. Dobbiamo costruire un nuovo patto sociale: con servizio obbligatorio per tutti, regole democratiche chiare e condivise, fiducia nelle istituzioni, una commissione d’inchiesta statale su base consensuale, lotta seria alla criminalità nelle comunità arabe, una scuola che formi cittadini coesi e pronti al futuro dell’intelligenza artificiale. E, soprattutto, serve un sistema politico stabile, con un governo sionista ampio, che riduca la polarizzazione".

Questa trasformazione parte dall’alto o dal basso?
“Deve partire dal basso. Dai cittadini, dai media, dai politici. Ognuno deve assumersi la responsabilità: personale e nazionale. Non possiamo continuare a puntare il dito verso gli altri senza guardare a noi stessi. Il cambiamento non verrà da un singolo leader, ma dalla volontà collettiva di affrontare la verità e costruire insieme".

Lei ha citato un passo dei Pirkei Avot: “Non sta a te terminare l’opera, ma non sei libero di sottrartene”. Cosa significa per lei oggi?
“Significa che non dobbiamo avere l’arroganza di pensare che possiamo risolvere tutto ora, ma nemmeno la presunzione di lasciare tutto com’è. Siamo parte di una catena, di una nazione gloriosa. Abbiamo un dovere verso chi ci ha preceduto e verso chi verrà dopo di noi. La “riparazione” è iniziata con la guerra e continua ora con il ritorno degli ostaggi. Ma se non ci sarà una trasformazione interna, non avremo futuro".

In conclusione, cosa garantisce la sicurezza a lungo termine di Israele secondo lei?
“Non solo la forza militare, ma la resilienza interna. Una società sana, coesa, consapevole della propria identità e capace di affrontare le sfide insieme. Solo così garantiremo sicurezza duratura al popolo ebraico e a tutti i cittadini dello Stato di Israele".

 

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