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Alberto Trentini, per il desaparecido di Maduro la Sinistra resta in silenzio

Rita Cavallaro
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Non una parola da Ilaria Salis. Che il regime di Maduro, si sa, non è mica la «dittatura» di quel cattivo di Victor Orbán, il «fascista» che l’ha incatenata, regalandole di fatto un posto all’Europarlamento. Nulla dal duo delle meraviglie Fratoianni e Bonelli, impegnati a cercare le colpe dei guasti ai treni e a criticare il governo che non vuole arrestare Netanyahu per crimini di guerra. Insomma, per i paladini delle libertà e dei diritti in salsa Propal, Alberto Trentini non esiste, un po’ come quei gulag sovietici che per la sinistra sono quasi un’invenzione. Eppure Alberto Trentini, il cooperante veneziano di 45 anni imprigionato in un carcere venezuelano da due mesi, dovrebbe essere proprio il modello di quei comunisti che si riempiono la bocca con la difesa degli ultimi ma che, i disperati veri, li hanno abbandonati ormai da un bel pezzo.

 

D’altronde l’italiano, da quasi vent’anni, era impegnato in missioni umanitarie con Ong internazionali nei Paesi più a rischio. Purtroppo per lui, non quelle giuste che raccattano clandestini in mezzo al mare, altrimenti al suo fianco, oltre agli inventori dei vari Soumahoro, si sarebbero schierati divi al pari di Richard Gere, Trentini stava operando con Humanity e Inclusion per aiutare i poveri e i disabili a metà ottobre era sbarcato in Venezuela, trovando una situazione così ostile da convincerlo, il 14 novembre scorso, a rassegnare le dimissioni. Il regime di Maduro, però, lo ha fermato ventiquattr’ore dopo, prima che potesse lasciare il Sud America: consegnato alle autorità della Direzione generale del controspionaggio venezuelano, è stato trasferito nel carcere di San Cristobal e poi a Caracas. Da lì, più nessun contatto. Il governo lavora nel massimo riserbo e il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, ha fatto sapere che la detenzione del cooperante «non è una rappresaglia di Maduro, stiamo lavorando e non è il momento delle polemiche».

Una risposta alla famiglia di Trentini, la quale, per rompere il muro di silenzio che fa temere per la sorte dell’italiano, ha deciso di chiedere «l’attenzione di tutte le Istituzioni dei due Paesi circa la drammatica situazione e la sua liberazione affinché possa tornare a casa e all’affetto dei suoi familiari e amici». La madre di Alberto, Amanda, ha detto: «Siamo molto provati. Non sento mio figlio da due mesi. Lui ora è ostaggio di quel Paese, ma è solo una pedina».

La vicenda è alquanto delicata: il cooperante non può fare telefonate e la famiglia teme per la sua salute, visto che è un soggetto iperteso e c’è il rischio che non gli vengano forniti neppure i farmaci per la pressione. Inoltre, ha fatto sapere l’avvocato dei Trentini, Alessandra Ballarini, da quando è stato fermato al posto di blocco insieme all’autista e trasferito in carcere, il regime di Maduro non gli avrebbe mai contestato formalmente l’imputazione a causa della quale è in cella. Una situazione che ha spinto la segretaria del Pd, Elly Schlein, a depositare due interrogazioni urgenti a Camera e Senato.

«Chiediamo al Governo di attivarsi con la massima determinazione, per garantire il pieno rispetto dei suoi diritti fondamentali e assicurare il suo rientro in Italia», ha detto la dem, senza però fare riferimento alcuno al Paese di sinistra che lo tiene prigioniero. «Ho fatto convocare stamani (ieri, ndr) l’incaricato d’affari del Venezuela per protestare con forza per la mancanza di informazioni sulla detenzione del cittadino italiano Alberto Trentini e per contestare l’espulsione di tre nostri diplomatici da Caracas», ha spiegato il ministro Tajani, sottolineando che «l’Italia continuerà a chiedere al Venezuela di rispettare le leggi internazionali e la volontà democratica del suo popolo». Ma che in Venezuela sia ormai in atto la soppressione dei diritti, e un’ostilità verso l’Italia che non ha acclamato il dittatore, non è più un mistero.

«Da quando si è insediato Maduro», ha sottolineato Andrea Di Giuseppe, deputato di Fratelli d’Italia eletto in Nord America, «sto denunciando la repressione nei confronti della comunità italiana. Basta un post, anche datato, contro di lui per essere arrestati: i social sono diventati uno strumento per individuare e far sparire potenziali oppositori al regime». Di Giuseppe rivela che «la scorsa estate, a causa dei numerosissimi posti di blocco, molti nostri concittadini sono stati costretti a muoversi di poche centinaia di metri al giorno, nascondendosi lungo la strada dove potevano, e col favore della notte per raggiungere il nostro consolato e cercare aiuto. In sei mesi, la situazione è rimasta immutata e continuo a ricevere messaggi da italiani che hanno bisogno di aiuto», conclude.

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