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Elly di Neanderthal e Giorgia a testa in giù: la sinistra si indigna ma a giorni alterni

Antonio Siberia
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 Il politicamente corretto è la morte della comicità e della satira. Qualche anno fa il regista, sceneggiatore, attore e comico americano Mel Brooks (autore di esilaranti film come «Per favore, non toccate le vecchiette» o «Mezzogiorno e mezzo di fuoco») intervistato dalla Bbc spiegò con poche e chiare parole come l’ossessione per il linguaggio politicamente corretto oggi non permetterebbe neppure di realizzare e produrre un film come «Mezzogiorno e mezzo di fuoco»: «Va benissimo non urtare i sentimenti di questo o quel gruppo o minoranza, ma non va bene per la commedia che deve camminare su questa linea sottile, deve assumersi dei rischi». Da allora, era il 2017, sono passati alcuni anni e l’ossessione per il politicamente corretto nelle società occidentali, Usa e Europa in testa, è andata crescendo.

 

Pensiamo all’Italia: film come i due «Amici Miei» di Mario Monicelli (il terzo atto era di Nanni Loy) o «Il sorpasso» di Dino Risi, pieni di battute fantastiche e scorrette, si potrebbero realizzare o verrebbero bocciati in nome dell’ideologia del politicamente corretto? Qui sta il punto: che nel nostro tempo la comicità e la satira rischiano l’irrilevanza per le troppe autocensure e timori nel prendere in giro o ironizzare. Eppure la satira e la comicità sono ingredienti essenziali nelle società libere e democratiche, un sale salutare per la riflessione, la libertà di pensiero e di opinione e tutto il resto. Basta guardare alla storia per rendersi conto che sono sempre le dittature, i regimi autoritari, le autocrazie ad imporre loro codici di linguaggio, quel che si può dire e cosa no. E alla storia dovrebbero guardare tutti i fan del politicamente corretto per finirla qui.

 

Negli Usa, dove la marea del politically correct è cominciata per poi allargarsi all’Europa, qualcosa - ancora poco ma è un primo segnale - per fortuna sta cambiando e nel 2024 a Mel Brooks hanno dato un Oscar alla carriera. È l’ora che anche l’Italia e il Vecchio Continente comincino a liberarsi dalla ossessione del politicamente corretto. Se ci voltiamo indietro nel tempo vediamo che la satira in Italia, nel passato, non ha mai guardato in faccia a nessuno. Non lo ha fatto certo ai tempi della Prima Repubblica quando Giorgio Forattini disegnava nelle sue vignette su un quotidiano progressista («La Repubblica»), Giovanni Spadolini con il pisellino piccolo piccolo, Giulio Andreotti con una gobba e le orecchie a sventola, Bettino Craxi come un Mussolini con gli stivaloni.

Oggi, molto probabilmente, quelle vignette legate anche all’uso dell’ironia sul corpo dei leader verrebbero tacciate di body shaming. Eppure questi leader che hanno fatto la storia dell’Italia non hanno mai vestito i panni di vittime della satira. Probabilmente non erano felici di esser bersagliati ma mettevano nel conto che in una democrazia matura chi ha il potere o chi fa politica, avendo un ruolo pubblico, deve fare i conti anche con la satira.
Giulio Andreotti, cui non ha mai difettato l’ironia ed una certa sagacia romana, era solito ripetere - rispetto al mestiere del politico una frase che le classi dirigenti di oggi dovrebbero mandare a memoria: «Chi fa politica deve temere una sola cosa: essere dimenticato».

Perché in fondo anche esser oggetto della satira aiuta - soprattutto se a far satira è un vignettista o un comico di talento - a non passare inosservati ed a non finire nel dimenticatoio. Mentre il politicamente corretto ad ogni costo non fa altro che rendere tutto conformista. Appiattisce, e riduce pure gli spazi di libertà. Come ha ben spiegato Mel Brooks va benissimo non urtare i sentimenti delle tante minoranze esistenti purché il non urtare non diventi, nella realtà in cui si materializza, una ingessatura o una forma di censura. Viva la libertà, dunque. E viva la satira.
 

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