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Giustizia, le toghe sfiduciano le toghe: "Noi non facciamo politica"

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Augusto Minzolini
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Tira di qui, tira di là alla fine la corda si è spezzata ed è scoppiata la categoria: al Csm i magistrati di magistratura indipendente, la corrente moderata, non hanno firmato il documento di solidarietà presentato dagli altri membri dell’organismo di autogoverno delle toghe a «tutela» della giudice di Catania che qualche giorno fa si è rifiutata di applicare l’ultimo decreto del governo contro l’immigrazione clandestina, meritandosi il rimbrotto del premier Giorgia Meloni. Ma l’aspetto più intrigante è la motivazione addotta per il rifiuto: «Noi non facciamo politica». Insomma, toghe che hanno rinfacciato ad altre toghe la stessa accusa che da trent’anni, cioè dai tempi di Tangentopoli, la politica lancia contro un pezzo di magistratura che ha fatto il bello e il cattivo tempo, delegittimando leggi approvate dal Parlamento e silurando governi. È un episodio importante come la cacciata dei mercanti dal Tempio, di cui ancora non si valutano appieno le conseguenze: nei fatti nel Tempio della giustizia ci sono toghe che hanno imputato ad altre toghe il peggiore dei peccati per un giudice, quello di non essere imparziale, di essere mosso da logiche di parte, di giudicare sulla base di un orientamento ideologico. Portato alle estreme è un vero e proprio atto di sfiducia verso il nostro sistema giudiziario, verso uno di quei principi di cui ci si riempie ogni giorno la bocca mache non vengono mai applicati: un giudice non solo deve essere imparziale, ma deve apparire tale. Ed è inutile girarci attorno: il giudice che fa politica non è imparziale, per cui non è più un giudice e la magistratura, nel caso, diventa un contropotere che invade il campo del potere esecutivo (Governo) e del potere legislativo (Parlamento).

Una critica esiziale - questo è il punto - che non viene più dai Palazzi della politica, ma dall’interno della stessa corporazione. È un segnale preciso a questo governo, a questa maggioranza e allo stesso ministro Nordio. Se in questo Paese si vuole davvero governare è necessario tagliare i nodi gordiani che hanno confuso in tutti questi anni i ruoli dei vari poteri costituzionali: un giudice deve applicare la legge non deve arrogarsi il diritto di contestarla o peggio di delegittimarla. E la riforma della giustizia dovrebbe servire innanzitutto a riportare ogni Potere nel suo alveo naturale.

Invece, in questi mesi si è avuta l’impressione - purtroppo va detto - che la maggioranza di centrodestra in una parte per timore o per poca decisione, in un’altra mossa dal desiderio nascosto di aprire una trattativa parallela con la magistratura più politicizzata magari per strappare un atteggiamento meno bellicoso, abbia attenuatola determinazione e rallentato la velocità con cui vuole condurre in porto la riforma della giustizia. Sarebbe un errore fatale, perchè se come dice M.I. c’è un pezzo di magistratura che fa politica allora seguirà le regole della politica e, quindi, più il governo sarà in difficoltà e più si accanirà contro di esso.

Non è un complotto è un automatismo per quei magistrati, come il giudice di Catania nei suoi interventi sui social, che confondono la loro missione togata per una sorta di militanza rivoluzionaria. Una filosofia che concorre in una situazione economica complicata, mentre le agenzie di rating si preparano ad esprimere il loro giudizio sull’Italia, mentre le piazze e il sindacato cominciano ad agitarsi, mentre si tratta in Europa su temi sensibili come l’immigrazione, mentre si combatte una guerra a mille chilometri di distanza, a creare una cappa di precarietà sul Paese e sul governo. Ecco perchè Silvio Berlusconi ricordava in ogni occasione che la prima riforma da fare, la più importante, era quella della giustizia. Non fosse altro per esperienza: lui è stato la vittima più illustre di una magistratura di parte e schierata politicamente. 

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