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La vera storia del golpe che fermò Berlusconi nel 2011

Davide Vecchi
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Per descrivere la catena di eventi che nel 2011 portarono alla caduta del governo Berlusconi c’è un pamphlet scritto nel 1931 da Curzio Malaparte che calza a pennello, perché spiega lucidamente la tecnica di prendere il potere: con la nomina-lampo a senatore a vita, Monti poté infatti legittimarsi come espressione dello stesso Parlamento in cui era stato paracadutato da Napolitano, e così il massimo tempio della sovranità popolare divenne complice del disegno quirinalizio, accettando il fatto compiuto e legalizzandolo formalmente. Il tutto giustificato dallo «stato di necessità». 

Se non fu un golpe nel senso tradizionale del termine, con i militari nelle piazze, si trattò comunque di un colpo di Stato moderno di cui la storia è colma, ma nella democraticissima Europa non era mai accaduto che un governo eletto – traballante ma mai sfiduciato dalle Camere - fosse destituito così, attraverso una congiura combinata tra attori interni ed ingerenze straniere: dal punto di vista costituzionale, una cosa gravissima.

Sono le rivelazioni contenute nel nuovo libro di Nicolas Sarkozy, "Le temps des combats", a confermare che la congiura ci fu, con l’Italia condannata a seguire il destino della Grecia attraverso una studiata combinazione di manovre politiche e di tempeste finanziarie, attraverso l’uso sapiente degli spread, per imporre ai due Paesi l’austerità a trazione franco-tedesca. Ma mentre il governo socialista di Atene aveva truccato i conti dello Stato, in tre anni e mezzo il governo Berlusconi aveva varato quattro manovre finanziarie per un impatto complessivo sui conti pubblici, nel periodo 2008-2014, di 265 miliardi, con l’obiettivo di raggiungere il pareggio di bilancio nel 2013, come attestato dalle considerazioni finali di Bankitalia del 31 maggio: «La gestione della crisi è stata prudente, il pareggio di bilancio appropriato, la correzione richiesta all’Italia inferiore rispetto a quella necessaria per altri Paesi». E lo stesso tipo di considerazioni positive ci fu a fine luglio 2011, nel consiglio dei capi di Stato e di governo europei. Ma una settimana dopo arrivò la lettera-diktat della Bce che ordinava al governo italiano di varare, per decreto, una manovra bis da 65 miliardi che si sommava a quella da 80 miliardi decisa appena un mese prima. Com’era possibile che un grande Paese come l’Italia (too big to fail) fosse precipitato nel giro di pochi giorni in una crisi così profonda?

Eppure Sarkozy accomuna incredibilmente la situazione dei due Paesi: «L’ora era grave. Abbiamo dovuto sacrificare Papandreou e Berlusconi per tentare di contenere lo tsunami [...]I mercati hanno capito che noi auspicavamo le dimissioni di Berlusconi. È stato crudele, ma necessario». E ancora: «Angela Merkel e io decidemmo di convocare Berlusconi per convincerlo a prendere ulteriori misure per provare a calmare la tempesta in atto», cercando di convincerlo «a lasciare la guida del governo». In realtà, i governi affidati nelle mani di due tecnocrati non abbassarono affatto la febbre degli spread, e la crisi sarebbe stata superata solo nel 2012 col famoso "Whatever it takes" della Bce di Draghi.

 

La ricostruzione di quei mesi è nota, con il Quirinale sempre più interventista nella politica parlamentare, e con una serie impressionante di anomalie: le consultazioni continue al Colle, le lettere e i richiami della Bce e della Commissione europea scritti da manine italiane, l’attacco speculativo ai titoli Mediaset, la frettolosa vendita di sette miliardi di titoli di Stato da parte di Deutsche Bank, le risatine della Merkel e di Sarkozy diffuse e amplificate dai media italiani e stranieri. 

Fu poi il Wall Street Journal a scrivere che la cancelliera Merkel «incoraggiò gentilmente» Napolitano «a cambiare il primo ministro se Berlusconi non fosse riuscito a cambiare l’Italia». Tesi poi confermata dall’ex segretario al Tesoro americano Tim Geithner, il quale, nel suo libro di memorie, rivelò di quando «alcuni funzionari europei» chiesero senza successo all’amministrazione Obama di impegnarsi per far uscire Berlusconi di scena. Nel frattempo sul Corriere della Sera usciva un editoriale intitolato "Il podestà straniero" scritto da Mario Monti che censurava l’incapacità del governo di prendere serie decisioni. Un’autocandidatura a premier già di fatto concordata col Quirinale prima ancora che esplodesse lo spread.

Ma il golpe strisciante aveva radici più lontane, ed era stato sventato nel dicembre precedente quando Fini dopo la scissione con Fli tentò la spallata al governo fallita grazie ai Responsabili, e chi frequentava i Palazzi conosceva bene la sintonia fra il Quirinale e il presidente della Camera. Il quale, come altri, non vedeva l’ora di disarcionare Berlusconi nell’illusione di prenderne il posto, senza sapere che Napolitano aveva in mente la svolta tecnica. 

Lo sparo di Sarajevo fu il voto sul rendiconto dello Stato, nel quale la maggioranza si fermò a 308 voti, con Berlusconi che annotò su un foglietto gli «otto traditori». Ma i malpancisti erano molti di più dentro Forza Italia, e gli echi del vertice di Cannes del 3 novembre, solo qualche giorno prima, avevano alimentato le fibrillazioni. 
A livello internazionale l’immagine di Berlusconi era stata compromessa dai gossip personali, ma anche dalle fregole di qualche suo ministro che ne diceva peste e corna nei consessi oltre confine.

A Palazzo Grazioli il clima era di massima allerta, con lo stato maggiore del partito riunito quasi in permanenza. Quando Napolitano chiamò Berlusconi per informarlo della volontà di nominare Monti senatore a vita, non tutti compresero subito che quello era il segnale della fine. Si alzò però una voce concitata che disse: «Presidente, cosa ci stai dicendo, capisci che questo è il primo passo per farti fuori? Il Colle ti sta chiedendo di accettare un senatore a vita nominato in 48 ore, il Ppe che è casa nostra lo sta benedicendo, questo è un golpe vero e proprio». Berlusconi era molto provato, ma non voleva assolutamente mollare: Napolitano aveva chiesto un nuovo voto sul rendiconto, una verifica parlamentare della maggioranza insomma, ma nessuno era in grado di garantire al premier – che chiedeva se ci fossero numeri certi alla Camera – il rientro nei ranghi dei malpancisti. Da fuori la spinta di Merkel e Sarkozy era fortissima, come quella delle agenzie di rating e dei mercati finanziari. Nel cerchio ristretto berlusconiano cominciava a farsi spazio la rassegnazione e serpeggiavano i dubbi: ma i nostri all’Europarlamento cosa fanno? Chi tiene i contatti col Partito Popolare non si è accorto di nulla, non ha visto che Doll sta orchestrando il complotto? Gli sono passati gli aeroplani sopra la testa? Anche se Berlusconi aveva assicurato a tutti di aver risposto colpo su colpo a Merkel e Sarkozy, Gianni Letta era il più preoccupato di tutti per l’atteggiamento ostile della strana coppia che comandava l’Europa che ormai riteneva il Cavaliere «imbarazzante». Mentre Brunetta rumoreggiava chiedendo di rispondere in modo durissimo alla lettera della Bce.

Alla fine Berlusconi gettò la spugna e si dimise: «Era successo – avrebbe rivelato anni dopo - che in quell’estate-autunno 2011 mi ero opposto in ogni modo alla politica di austerità che Merkel e Sarkozy volevano imporre all’Italia, al punto di volerla far commissariare dal Fmi. Non intendevo - anche se lasciato solo dal capo dello Stato - rinunciare alla nostra sovranità, per rispetto alla nostra gente e per ragioni di dignità nazionale. Fui costretto però, pochi giorni dopo il G20 di Cannes, dove ai primi di novembre ero stato sottoposto a pressioni tremende, a dimettermi. Lo feci perché preferii ritirarmi piuttosto che danneggiare irreparabilmente l’Italia, che era tenuta sotto tiro con la pistola dello spread. Un’arma costruita a freddo per consentire a potenze esterne e interne, extra democratiche, di prendere il timone della nave». 
Eccola la vera storia. Una storia da tecnica di colpo di Stato, in cui ebbero un ruolo cancellerie, poteri forti, avversari politici ma anche amici che si voltarono dall’altra parte.

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