dimissioni volontarie

Il sociologo Domenico De Masi: “La pandemia ha cambiato le priorità. I soldi non sono più al primo posto”

Pietro De Leo

Tema giovani e lavoro. Nelle ultime settimane due chef stellati di primissima fascia, Alessandro Borghese e Filippo La Mantia, hanno toccato alcuni aspetti fondamentali del fenomeno. Il primo, ha imputato alla nuova generazione una certa refrattarietà a svolgere il periodo di gavetta, magari con un riconoscimento economico basso. La Mantia, invece, ha sottolineato come oggi i giovani abbiano probabilmente cambiato mentalità, ritenendo più importante avere del tempo per loro stessi. Il Tempo ne ha parlato con il sociologo Domenico De Masi, sociologo e docente universitario.

Professor De Masi, è vero che dopo il Covid la scala di valori è cambiata e il lavoro può aver perso terreno?
«Io credo di sì, ma forse non solo per i più giovani. Il fenomeno delle dimissioni dal lavoro è molto frequente in America, ma riguarda anche l’Europa e l’Italia. E coinvolge non solo i più giovani ma anzi quelli che sono ancora lontani dalla pensione ma sono comunque esperti nelle loro mansioni. Decidono di abbandonare il lavoro perché magari hanno messo da parte un po’ di soldi, e ciò li induce a vivere preferendo, piuttosto che il consumismo, la dimensione autorealizzativa. La filosofa Agnes Heller evidenziò che l’uomo ha due tipologie di bisogni. I primi sono di carattere quantitativo: potere, possesso e denaro. Questi non sono mai completamente soddisfatti, perché c’è sempre qualcuno che ne ha più di noi. Poi ci sono i bisogni di carattere "radicale", che attengono alla radice umana: amore, amicizia, gioco, bellezza, introspezione. Ecco, questi si realizzano non in base ai soldi, ma ad esempio in base alle capacità relazionali. La pandemia, con il suo impatto sulle vite umane, ha sottolineato l’importanza di dedicarsi a questa seconda categoria di bisogni».

 

 

Altro tema, però, è anche una certa ritrosia nel fare gavetta. Magari iniziando con poca retribuzione per imparare.
«Siamo in un’economia di mercato, che fa domanda e offerta. Se la domanda degli imprenditori non incontra l’offerta dei giovani, allora vuol dire che è necessario alzare il valore di quella domanda. Io ho tanti ex studenti che lavorano per anni senza essere pagati o al limite pagati in modo del tutto fittizio».

Però all’inizio la qualità della prestazione non è così elevata. In questo senso, non si va a perdere la logica dell’apprendistato?
«L’apprendista fin dal primo momento fa delle cose, poi fa sempre meglio. Però quell’addestramento deve essere a spese non sue, ma dell'azienda. Adriano Olivetti formava per un anno gli ingegneri, poi li assumeva. Ma in quel periodo di formazione, comunque li pagava».

 

 

C’è poi anche un altro tema, il disallineamento tra competenze maturate nella fase educativa e quelle richieste dal mondo del lavoro. Lei come la vede?
«Se io in aula ho 200 studenti, che andranno a svolgere 15 lavori diversi, io non posso formarli per tutti e 15 i lavori. Ma il mio dovere è fornire loro una formazione di base. L’ultimo miglio, che riguarda la specificità, glielo deve dare l’azienda. Peraltro, la scuola italiana prepara benissimo, i nostri laureati all’estero fanno bella figura, non sono per nulla inferiori agli inglesi o francesi. Io questa scollatura non la vedo».