inchieste e scandali

Siamo invasi dalle mascherine cinesi bucate e facciamo fallire la nostra filiera

Sarà necessaria qualche settimana alla Guardia di Finanza per analizzare i dati dei contagi e degli eventuali decessi di personale sanitario in tutti gli ospedali e le strutture in cui sono state utilizzate le 185 milioni di «mascherine bucate» fornite a questi poveracci dalla struttura commissariale governativa guidata allora da Domenico Arcuri.

 

Saranno quei numeri ad aiutare il magistrato della procura di Gorizia, Paolo Ancora, a formalizzare le ipotesi di reato (fra cui è possibile anche quella di omicidio colposo) e la lista degli indagati di una delle più brutte storie che abbia subito l’Italia nell’anno della pandemia. Ma dai continui sequestri su tutto il territorio operati dalla guardia di Finanza sta emergendo un problema di proporzioni ancora più vaste: l’Italia come accadde all’inizio della pandemia è invasa di dispositivi di protezione individuale - i vari tipi di mascherine - di produzione cinese, importate sotto costo e spesso con certificazione fasulla. Sarà tema delle procure e delle Fiamme gialle che si stanno muovendo in queste settimane scoprire chi e come abbia fornito quelle certificazioni di conformità che si stanno rivelando quasi sempre fasulle. Non tutti i casi sono della stessa gravità delle mascherine di Arcuri, che offrivano una protezione del 9% pur essendo garantite per almeno il 90%. Ma quasi sempre i sequestri scattano perché la protezione effettivamente garantita e controllata in laboratori specializzati è inferiore di almeno la metà di quanto dichiarato e falsamente certificato.

 

Eppure l’anno scorso Confindustria aveva firmato un accordo con lo stesso Arcuri e la sua struttura per costruire una filiera tutta italiana di mascherine chirurgiche e Ffp2 riconvertendo i siti produttivi di 70 importanti aziende nazionali. Hanno acquistato macchinari molto costosi (un milione di euro l’uno), nella gran parte dei casi prodotti dalla Ima dei fratelli Vacchi. Sono riuscite a ottenere la produzione di dispositivi che venivano sfornate a cifre assai contenute, come i 0,06 euro per ogni mascherina chirurgica e una cifra oscillante fra 0,38-0,40 euro l’una per le mascherine Ffp2. Ma nessuna delle centrali di acquisto pubbliche vi fa ricorso, preferendo gare al massimo ribasso dove trionfano sempre prodotti cinesi dove né qualità né sicurezza è mai garantita davvero. I siti produttivi italiani sono invece tutti verificati, sanificati in continuazione, hanno organizzazione del lavoro rispettosa non solo dei contratti di chi vi opera, ma anche dei protocolli di sicurezza in fabbrica, con le massime condizioni igieniche possibili.

Sono tutte testate e certificate regolarmente da laboratori e istituzioni pubbliche italiane. Ma senza ordinativi ovviamente non riescono a stare in piedi. Lo ha fatto capire in una drammatica lettera-appello inviata al nuovo ministro dello Sviluppo Economico, Giancarlo Giorgetti il presidente di Confindustria Alto Adriatico nonché vice presidente di Confindustria Friuli Venezia Giulia, Michelangelo Agrusti. Che ricorda come il commissariato del governo «finanziò gli investimenti di alcune di queste imprese», favorendo la nascita della filiera italiana delle mascherine. Già dopo l’estate scorsa l’Italia era diventata sulla carta autosufficiente «per l’approvvigionamento di questi importanti presidi sanitari e di calmierare un mercato invaso da prodotti per lo più cinesi di qualità che via via si sono dimostrate non rispondenti alle specifiche richieste».

 

Agrusti spiega che «tutto questo rischia di essere irrimediabilmente messo a rischio di distruzione, in virtù di politiche di acquisizione di questi dispositivi, soprattutto ad opera di Enti pubblici, Comuni, Regioni, dello stesso Commissariato e di grandi società a partecipazione pubblica (Eni, Poste etc..) che, procedendo a gare al massimo ribasso, stanno di fatto riconsegnando alla Cina il monopolio di queste strategiche forniture». Questo mentre «i nostri produttori di tutta Italia si vedono tagliati fuori da gare che prevedono come unico elemento discriminante il prezzo della merce, in virtù delle note politiche di dumping praticate di norma da paesi come la Cina».

Abbiamo fatto rischiare la vita ai medici per questa scelta, probabilmente la stanno rischiando anche gli italiani, perché o le mascherine non servono a nulla e allora le autorità sanitarie ci stanno prendendo in giro da un anno, o il controllo sulla qualità di quelle protezioni dovrebbe essere prioritario e rigoroso come non è stato fin qui. Un po’ di sovranismo almeno sulla protezione della salute dei cittadini italiani è il minimo che si richiede.