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Il grido del piccolo Alfredo «Mamma, aiutami ad uscire»

A VERMICINO 25 ANNI FA LA MORTE DI ALFREDINO RAMPI

Il bambino fin dalle prime ore di ieri può comunicare con i genitori e i soccorritori

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S olo un miracolo può salvare la vita di Alfredo Rampi. Se non fosse un bambino straordinariamente equilibrato, la sua resistenza sarebbe già stata vinta: dalle 19 di mercoledì è prigioniero a 36 metri di profondità nel pozzo artesiano nel quale è caduto nelle campagne tra Vermicino e Frascati. Ma Alfredo resiste. Fino a quando potrà? Nel corso della notte le sue capacità di reazione si sono notevolmente affievolite, come ha detto il prof. Fava che lo tiene costantemente sotto controllo. E' una lotta contro il tempo. E contro lo strato di tufo granitico che ha bloccato la trivella a 23 metri di profondità. Due metri più sotto, dopo la roccia, dovrebbe esserci nuovamente l'argilla. Sarebbe facile, in questo caso, arrivare all'altezza del bambino e poi scavare orizzontalmente un passaggio tra i due pozzi. E' l'ultima speranza, sempre più tenue con il passar delle ore. Adesso non servirebbe stare a chiedersi come Alfredo sia potuto finire in un pozzo artesiano disegnato a misura di bambino da una trivella di venticinque centimetri di diametro. Nè come abbia fatto a scivolare sulle pareti d'argilla per un tratto così lungo restando praticamente illeso, o perchè si sia fermato dopo quasi quaranta metri quando ce ne sono altrettanti che lo separano dal fondo del pozzo. Lui è qui, è vivo. Ed è già una fortuna che il maresciallo Serranti di Casilino Nuovo abbia udito l'esile lamento che, sotto la lamiera nel frattempo rimessa a chiudere il pozzo, chiedeva di tornare nel mondo dei vivi. Sono le due di notte. Alfredo è sotto da circa sette ore. Da quattro la sua voce giunge amplicata attraverso il lunghissimo cunicolo. Ci si chiede se potrà resistere ancora. Un minuto? Un'ora? La corsa contro il tempo è iniziata. È solo una speranza, ma bisogna tentare. Verso il lamento sottile e incessante di Alfredo scende, legata a una corda doppia, una tavoletta di legno larga poco meno del pozzo. L'ing. Fagioli dei Vigili del Fuoco, disteso sul ciglio del baratro, spiega ad Alfredo che dovrà sedercisi sopra: lo tireranno su come in un gioco. Metri e metri di corda sono ingoiati dal pozzo. Poi la tavoletta si ferma. Purtroppo non arriva fino al bambino: si blocca di taglio fra le pareti d'argilla e più si tira dall'alto più si incastra ad ostruire il passaggio. Un «pozzarolo» spiega che andando giù il foro della trivella diventa netto e preciso. Cioè si restringe. Alfredo Rampi ha sei anni e un fratellino di due. È intelligente, vivace, magro come uno schizzo. Il buio, l'umidità, le ferite che probabilmente si è fatto nella caduta non gli impediscono di gridare che vuole uscire, di arrabbiarsi quando gli dicono di afferrare la corda che certamente non gli arriva perchè si ferma sulla tavoletta di legno una decina di metri più su. La madre, signora Franca, ha la forza di parlargli con calma, di nascondere l'angoscia che le stringe il cuore: «Alfredo, sono mamma. Stai tranquillo, che vengono a prenderti». O ancora: «Alfredo, tesoro, devi trovare la forza per salvarti. Devi prendere la corda che ti mandano e stringerla forte finchè non ti tirano su». Solo quando si allontana dal pozzo, ed è sicura che Alfredo non possa sentirla, si stringe la testa tra le mani mormorando: «Non può resistere ancora. Non può stare lì sotto, è un bambino malato di cuore. Perchè non capiscono che è malato cuore?». Ma Alfredo resiste, piange, si arrabbia a dispetto del vizio congenito che mina il suo fragile fortissimo cuore. È una notte limpida. Alla tensione, alla stanchezza, si aggiunge il fastidio del freddo pungente. Le torce elettriche legate alla corda non portano il loro messaggio di luce al bambino: si fermano sempre sul legno maledetto. «Alfredo, la vedi la luce?». Sì, la vede, ma è dieci metri più su. Nel piccolo spiraglio tra la tavoletta e la parete del pozzo passa finalmente una corda. «Alfredo - dice l'ing. Fagioli - c'è una corda vicino a te. Prendila, se la prendi ti tiro su». E Alfredo la prende, piccolo eroe disperato al quale la voglia di vivere sembra moltiplicare le forze. Illusione? Forse Alfredo sale un pochino più su. Ma è un'illusione che dura poco. Finalmente un microfono con quaranta metri di cavo. Servirà, se non altro, a sentire vicina la voce di Alfredo. Sono le cinque. L'amplificatore porta in superficie un respiro irregolare e affannoso che sembra scandire il tempo che passa. La sua voce adesso è nitida: «E allora? La volete piantare? Voglio uscire da qui!». Piange, povera stella, quasi capisca l'impotenza di quelli che stanno più su e l'inganno che si cela nelle loro voci: «Smettila, Alfredo! Non vedi che tra cinque minuti siamo da te? Non piangere, stiamo per tirarti fuori». Non è vero. E Alfredo non piange più. Tace, ora, forse stroncato dalla lunga fatica. Assopito o svenuto? Poi si lamenta, poi ancora silenzio. E in questi momenti diventa straziante il grido della madre che risuona nella campagna di Vermicino, ai piedi di Frascati: «Alfredo, Alfredino! Rispondi, ti prego rispondi!». E la voce del padre Nando letturista dell'Acea, un uomo semplice e coraggioso che della famiglia e del lavoro ha fatto la sua ragione di vita: «Alfredo, sono io, papà. Devi resistere, perchè per salvarti ci vuole tempo. Il buco è stretto, nessuno può scendere da te. Abbiamo trovato un signore piccolo e magro, ma neanche lui può farcela. Devi aspettare, te lo dice papà». Da uomo a uomo: e Alfredo si calma. Le cinque e mezza. Mai come adesso si spera di farcela, grazie a quattro ragazzi che hanno coraggio da vendere. Sono i volontari della sezione speleologica di Roma del Corpo nazionale soccorso alpino. Non hanno pensato a chiamarli subito, ma sono venuti lo stesso. Simone Gozzano e Marco Marconi preparano i nodi e le corde. Tullio Bernabei scenderà a testa in giù sorretto da tre corde alle caviglie e alla vita. Avrà le mani libere per aprire il passaggio verso Alfredo. «Lei si deve impegnare - gli dice il funzionario di Polizia Granchelli - a risalire se trova difficoltà». E lui va, ingoiato dal baratro. Proprio mentre la signora Franca scoppia per la prima volta in un pianto dirotto. Nitida e tranquilla giunge la voce di Tullio Bernabei dal microfono che lo segue. C'è in lui la sicurezza che solo un lungo esercizio può dargli. Le parole scandiscono momenti drammatici: «Giù piano, fermate, ritiratemi un po' su, è molto stretto... avanti, piano, praticamente mi sono già incastrato... giù, giù, come si chiama il bambino?, calare adesso... Alfredo, Alfredino, abbassa la testa, non avere paura se cade un po' di terra... ecco, lui sta dopo la tavoletta, direi cinque o sei metri dopo, io sto cinque metri sopra la tavoletta, ma qui il buco si stringe... piano, fate più piano, va bene così, okay, okay». D'improvviso nel microfono entrano i lamenti di Alfredo. Mai così vicini. «Non lo vedo perchè c'è la tavoletta... bisogna toglierla ma non vado più giù, sono incastrato col bacino... tiratemi su, adesso, pari con i piedi... più su col sinistro, troppo quello destro... tirate su, più su con la vita... solo con i piedi adesso, piano, piano, piano». Spuntano i piedi. Tullio Bernabei è incrostrato di argilla fresca. Gli danno l'ossigeno, lo stesso che con un lunghissimo tubo a tratti viene mandato nel pozzo. (...)

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