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Quando l'Art Club segnò la rinascita italiana

C'è un anniversario che segna la ricostruzione non solo sociale, ma culturale e morale dell'Italia uscita da guerra e fascismo. Quell'Italia che voleva rinascere abbattendo le contrapposizioni. L'anni...

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C'è un anniversario che segna la ricostruzione non solo sociale, ma culturale e morale dell'Italia uscita da guerra e fascismo. Quell'Italia che voleva rinascere abbattendo le contrapposizioni. L'anniversario è legato a filo doppio con l'Art Club, nato a Roma nel 1945 e finito nel 1964, quando al connubio senza frontiere di figurativi e astratti subentrò la rivoluzione della Pop Art, siglata dal premio della Biennale a Robert Rauschenberg. Il segno lasciato dall'Art Club in venti anni del rinato Bel Paese viene celebrato con una mostra che si ijnaugura oggi a Forte dei Marmi (Fondazione Bertelli) resterà aperta fino a luglio. Perché Forte dei Marmi? Anche perché c'era un unico toscano tra i fondatori di Art Club, Luigi Montanarini, al quale dedica una sezione la rassegna con opere di 50 artisti sapientemente curata da Gabriele Simongini. Ma la culla del sodalizio fu Roma. In quella via Margutta che sarebbe poi diventata la strada degli artisti in senso lato, compreso Fellini. Al civico 51/a si riunivano i cinque di Art Club: Pericle Fazzini, Virgilio Guzzi, Enrico Prampolini, Montanarini e il polacco Joseph Jarema. Nel marzo '45 la nascita del movimento. E nell'ottobre successivo la prima mostra, nella Galleria San Marco di via del Babuino 61, che diventerà cuore del Club. Cosa si proponesse è esplicitato nel Bollettino n. 1 con un editoriale ispirato da Prampolini. Un manifesto condensabile nel verbo "ritrovarsi". Che conteneva l'imperativo etico di connettere le intelligenze dopo la lacerazione del conflitto, la sopraffazione del regime, la divisione per bande nei mesi della guerra civile. Dunque: sì al confronto di generazioni (Prampolini e Severini con i giovani Dorazio e Perilli); sì all'apertura internazionale, sì all'inclusione di correnti; sì al confronto di forme espressive, pittura, scultura, architettura, ma anche letteratura, teatro, cinema. Un'apertura che, osserva Simongini, avviò la strada italiana del "non oggettivo", approdando negli anni '60 all'Informale di Burri, Capogrossi, Colla. E che ebbe l'appoggio delle istituzioni, dal ministero degli Esteri alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna, diretta da Palma Bucarelli. La poliedricità dell'Art Club si toccava con mano alla Galleria San Marco: sopra le mostre, nella cantina un Jazz Club che faceva piazza pulita della musica autarchica. Transitavano qui attori, registi, scrittori: Anna Magnani e Michelle Morgan, De Sica, Blasetti, Moravia, Zavattini, Ungaretti. E a via Margutta l'Art Club favorì l'apertura al pubblico di tutti gli atelier, in serate di cene e di balli in strada. Ferveva lo spirito poliedrico del Futurismo, innestato da Prampolini. Alla sua morte, nel '56, Art Club virò verso l'astrattismo, determinando l'allontanamento di Guzzi e Jarema. Ma era stata segnata la strada di un'arte ecumenica, libera dai diktat dei partiti e del mercato. Bell'insegnamento in questi tempi di macerie geopolitiche, finanziarie e culturali.

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