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La morte di Dario Fo e l'oblio di Mario Calabresi

Pietro De Leo
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Caro direttore, due premesse:massimo e sincero rispetto di fronte alla morte di Dario Fo. Massimo e sincero rispetto di fronte al dolore di Mario Calabresi, della sua famiglia, e alla memoria di suo padre, il commissario Luigi. Però, ne converrai, talvolta non possiamo controllare i dubbi, gli interrogativi, che finiscono per annodarsi nella nostra mente. Il mio, da ieri, è questo: se fossi stato io il figlio di Luigi Calabresi, da direttore di Repubblica, come avrei trattato la notizia della morte di Dario Fo Artista contemporaneo fondamentale, Premio Nobel certo, ma anche tra gli untori di quel clima di odio che portò all'assassinio di mio padre nel '72? Cosa avrei fatto di quel manifesto, firmato da lui assieme ad altri quasi 800 intellettuali che rafforzò, di fatto, la condanna a morte contro mio padre emessa da tempo dall'universo sovversivo di sinistra? Cosa avrei fatto della rappresentazione di quel dottor Cavalcioni, poliziotto di Morte accidentale di un anarchico, che, per spaventare i sospettati li metteva pericolanti sul davanzale alludendo all'accusa mossa contro mio padre nella morte di Pinelli? Avrei scritto un editoriale ai miei lettori che forse, anzi quasi certamente, se lo aspettavano? Prima di scriverti queste righe ci ho pensato e ripensato, ho sfogliato avanti e a ritroso le pagine di Repubblica di ieri. Proprio quella Repubblica che vantava tra le sue firme prestigiose Adriano Sofri - condannato per il delitto del Commissario - che con eleganza preferì non scrivere più una riga dopo il passaggio del testimone da Ezio Mauro al figlio del poliziotto ucciso.  Di Fo e dell'infame appello all'Espresso non v'è che un cenno in un pezzo sull'impegno politico del Premio Nobel. Ho letto poi l'editoriale di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano, che invece apre il pezzo ricordando le sue litigate con Dario Fo e Franca Rame proprio sul commissario Calabresi. Su Repubblica, invece bisogna andare nelle pagine interne. Sfido, a mio rischio e pericolo, la soglia del buonsenso che dovrebbe impedire di stuzzicare le corde del dolore altrui e mi chiedo se, in fin dei conti, non sia stata persa un'occasione per affermare la verità. Perché Mario Calabresi non è semplicemente una vittima, che con dignità pulsa dolore e memoria (su questo ha scritto un bellissimo libro) di una vita mozzata con violenza della figura paterna. Ma è testimonianza storica di una barbarie, di quando il crimine, spacciato per rivoluzione, si abbatteva su esistenze (Luigi Calabresi aveva appena trentaquattro anni), famiglie, spargendo lacrime ed asciugando il futuro di bambini e ragazzi (come Mario Calabresi, ma anche come Benedetta Tobagi) che la mattina vedevano uscire un padre per poi non poterlo riabbracciare più. In questo bailamme di orrore condannato dalla storia, soffiava sul fuoco una classe intellettuale che, invece di orientare una generazione perduta verso il rispetto della vita, si era fatta trascinare da quell'orgia di condanne a morte emesse per afflato ideologico, ferocissimi tribunali morali pronti ad dar sentenza per categoria e per sospetto. Non oso immaginare quale possa essere stato lo sgomento della famiglia Calabresi nei mesi precedenti l'assassinio, quando il nome di Luigi, marito e padre, compariva scritto sui muri con auspicio di morte, quando arrivavano a casa telefonate anonime, quando i giornali dell'estrema sinistra, Lotta Continua su tutti, tamburellavano fomentando una caccia all'uomo che poi si risolse come sappiamo. Non oso immaginarlo, ma ieri, forse era opportuno che l'avessi immaginato, leggendolo, proprio nel tratteggio della figura di Dario Fo. Del racconto di tutto questo c'è ancora bisogno, per i lettori, per le giovani generazioni, per chi rinnega oppure facilmente dimentica. Se Mario Calabresi avesse fatto prevalere la testimonianza umana al decoroso silenzio probabilmente avrebbe mandato il caffè di traverso a tanti benpensanti, ma sicuramente avrebbe fatto il bene di chi ha sete di verità e di conoscenza. E avrebbe dato consolo di tutti noi che le agiografie vogliamo leggerle solo dei Santi. E neanche di tutti.

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