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Minniti: "Le prediche degli imam siano tutte in italiano. Rimessi in moto pericolosi giacimenti d'odio"

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Foto: La Presse

Edoardo Sirignano
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«Non possiamo parlare di libertà se non ci sentiamo sicuri in strada, se abbiamo paura quando usciamo dalle nostre case. Questa è una battaglia che dovrebbe andare oltre le appartenenze». A dirlo l’ex ministro Marco Minniti.

Quali segnali bisogna dedurre da quanto è accaduto in Australia?

«Il primo aspetto è quello relativo alla diffusione dei casi di antisemitismo. Dal 7 ottobre in poi, c’è stata un’impennata senza precedenti. Altro aspetto fondamentale quello relativo agli obiettivi dell’attacco utilizzati dall’Islamic State. Quanto accaduto, ad esempio, ricorda molto l’attacco del 2016 ai mercatini di Natale a Berlino. Cambia solo il bersaglio: prima era la religione cattolica, adesso è quella ebraica. Parliamo, d’altronde, di un collegamento non casuale».

Perché?

«Nelle stesse ore dell’attentato di Sydney la polizia tedesca, con cinque arresti, sventava un possibile attentato in Germania. La dinamica, dunque, è sempre la medesima: colpire della gente che sta pensando di festeggiare in un momento di profonda religiosità, nel modo più di massa possibile. Non dimentichiamo che se non fosse intervenuto Ahmed el Ahmed, il venditore che ha disarmato uno dei detrattori, in Australia, avremmo avuto un numero ancora maggiore di vittime. Questo fruttivendolo ha lanciato un messaggio straordinario».

Quale?
«Non si uccide in nome di Dio. Non esiste religione che non possa non contemplare tale principio».

Allo stesso modo, però, questa tragedia ci riporta l’attenzione su un fenomeno di cui non si parlava più, quello dei lupi solitari.

«La vicenda di Gaza di questi ultimi due anni ha costituito un elemento fondamentale che ha rimesso in campo straordinari giacimenti di odio. Bisogna, inoltre, ricordare che Islamic State è l’evoluzione dell’Isis. Questa, attraverso uno straordinario lavoro di comunicazione, pur essendo stata battuta militarmente, è riuscita a evolversi al di fuori della storica base territoriale. Non dimentichiamo che, poche ore prima dell’attacco a Sydney, vengono uccisi in Siria tre militari americani da un appartenente alle forze speciali siriane. Stabilizzare questa realtà è complicatissimo. In questo contesto, ci sono migliaia di soggetti da considerare pericolosi».

Ci sono, quindi, diversi focolai di potenziali terroristi?

«Basti pensare a quell’organizzazione che si chiama "Jnim", che fa riferimento esplicito al terrorismo islamico e che, in queste ore, sta accerchiando la capitale del Mali. Se dovesse cadere Bamako, il suo capo ha dichiarato: "sarà il primo passo dell’istituzione del califfato in Africa", evocando quello mondiale. In questo momento, il Sahel, (Mali, Niger e Burkina Faso) è il principale incubatore di terrorismo islamico nel pianeta. Poi da notizie di intelligence, il nuovo capo di Islamic State, Mumin, si nasconde nelle cave della Somalia e ha già arruolato 1500 uomini. Non dimentichiamo pure che questo nuovo leader ha un passato di predicatore nel Regno Unito. A  tutto questo, inoltre, bisogna aggiungere Boko Haram che, con le sue attività di minacce ai cristiani, contribuisce a determinare in Nigeria un quadro di totale e drammatica insicurezza. Dobbiamo, pertanto, essere consapevoli che la nuova mappa del terrorismo ci impone azioni più forti e capillari, considerando che parliamo di quelle mete da cui provengono i principali flussi migratori».

I migranti, dunque, oggi più che mai, se non controllati, possono rappresentare una minaccia senza precedenti?

«Bisogna innanzitutto contrastare i percorsi illegali e favorire quelli legali. In tutto ciò, l’Italia ha fatto un passo importante con il decreto Flussi. Si tratta adesso di far diventare quella scelta europea. Occorre effettuare un secondo step: pensare a un accordo strategico tra Ue e Unione Africana, che definirei “patto per l’immigrazione legale”. Oltre ai tradizionali controlli, servono quanto prima operazioni congiunte tra le diverse polizie anche nei Paesi di partenza e transito, con il loro accordo, contro i trafficanti di esseri umani, così come si fa già contro il terrorismo internazionale».

Ciò dovrebbe portare anche quella sinistra, che ha sempre ignorato il tema sicurezza, a occuparsene?

«La sicurezza è un principio fondamentale della convivenza civile. Sicurezza è libertà. Una società non può ritenersi aperta se non si può girare tranquillamente per strada. Parliamo, dunque, di temi su cui non potrebbero neanche essere pensate le divisioni. Chi si vuole impegnare, in tal senso, deve essere solo supportato. La battaglia del Tempo per fare luce su Termini, sull’Esquilino e su altre zone ritenute calde è più di un semplice punto di partenza».

Nella giornata di oggi i giudici liberano Shahin, l’Imam di Torino, noto per le sue prediche non certamente pacifiche. Che messaggio si rischia di trasmettere?
«Per mia scelta non commento mai le sentenze dei giudici, anche se considero le frasi pronunciate dall’Imam sul 7 ottobre inaccettabili. C’è bisogno, tuttavia, di una visione strategica intorno al problema. Nel 2017, il ministero dell’Interno firmò con tutte le organizzazioni del mondo islamico (sunniti e sciiti) il patto per l’Islam italiano. Tra le altre cose si decideva che tutte le prediche degli imam dovevano essere in italiano, ma soprattutto si stabiliva un principio concordato che teneva insieme l’essere musulmano e l’essere italiano».

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