L'intervista a Zaia: "Io sindaco di Venezia è un'idea romantica. Un incarico a Roma? Mai dire mai. I Giochi idea mia"
Luca Zaia, dopo aver fatto il pieno di preferenze alle regionali in Veneto (203.054 voti), è atteso a Palazzo Ferri-Fini per ricoprire la carica di presidente dell’Assemblea regionale. E non intende alimentare polemiche sul suo futuro.
Prima delle elezioni aveva detto: «Se sono un problema a questo punto vedrò di farlo diventare un problema». Direi che ha mantenuto la promessa.
«Ne ho vissute di elezioni importanti, ricordo quella del 2020 quando ho segnato un record mai eguagliato: il 77% dei consensi con il 61% di affluenza, ma questa volta è stato diverso».
In che senso?
«Dopo 15 anni e 7 mesi alla guida del Veneto mi si è aperto il cuore nel vedere tutti quei voti. È il record dei record visto che nella storia il secondo classificato ne ebbe 80mila in meno. Un segnale di stima anche perché reduce da un dibattito lunare».
Quello sul terzo mandato?
«No al terzo mandato, no alla lista civica Zaia (l’ultima volta aveva preso il 45%) e no al nome di Zaia da nessuna parte».
È servito il leoncino fatto con l’intelligenza artificiale?
«Sì soprattutto per ricordare alle persone che ero candidato. Anche per fare un po’ di informazione civica perché è complicato portare le persone a votare a novembre. È piaciuto talmente tanto che ci sono i bambini che mi fermano per sapere se ho dei peluche del leoncino da dargli».
È servito anche per riportare in auge anche il Leone di San Marco.
«Il leone è sempre in vita».
Ma dopo tutte queste preferenze non le va stretto il ruolo di presidente del Consiglio regionale?
«Sono uno che ha sempre lavorato per la squadra, pur avendo delle posizioni che, a volte, non sono tipiche della squadra; penso al tema dei diritti, dell’eutanasia. Mi è stato chiesto dal presidente Stefani di dare una mano in questa fase e la darò. Anche perché penso di essere un profondo conoscitore dell’amministrazione regionale».
Si parla di lei come prossimo sindaco di Venezia, presidente di Eni, ministro. Davvero non ha ancora deciso?
«Vedrò, adesso cercherò di capire anche rispetto al mio profilo quale sarà la miglior scelta che posso fare».
Sindaco di Venezia è un’idea romantica.
«Non c’è dubbio».
E a Roma?
«Mai dire mai, ma ora sono concentrato in questa fase cruciale per il neo presidente Stefani».
Parliamo di Olimpiadi. Veramente porteranno 5.3 miliardi di euro di Pil?
«Sì è uno studio di Banca Ifis. Ci vedranno 3,5 miliardi di cittadini nel mondo e verranno almeno 2 milioni di persone, sarà un nuovo rinascimento».
Come è nata l’idea della candidatura di Milano e Cortina?
«La candidatura ufficiale era solo quella di Milano. Durante il Conte I vidi la candidatura dell’allora sindaco di Torino Chiara Appendino e capii che la partita era aperta, immaginai che ci sarebbe stato un litigio e infatti litigarono. Così contro tutti i pronostici ho presentato nottetempo la candidatura, forse all’epoca temeraria e a cui magari credevo solo io, con la presentazione del dossier via pec a ridosso della scadenza dei termini».
Una conquista che non si godrà.
«Ho sempre buttato il cuore oltre l’ostacolo. E consiglio ai giovani amministratori di non governare pensando alla fine del mandato, sarebbe come gestire un’azienda pensando che prima o poi faranno un altro amministratore delegato».
Capitolo riforme. Che ne pensa del premierato?
«È un pilastro del programma di governo, non ci devono essere divagazioni sul tema. Non ci devono essere pilastri di serie A e di serie B».
Quando dice pilastro di serie B intende l’autonomia?
«Mi risulta che in maggioranza l’unico dibattito sia quello sull’autonomia. L’ho scritto nel mio libro: l’autonomia o la facciamo per scelta o la dovremo fare per necessità. Chi è contro l’autonomia è contro la Costituzione».
Certo che per un partito che aveva in mente la secessione questa autonomia sembra un ripiego.
«La secessione fu una provocazione di quel creativo di Bossi. Si inventò la gazebata, comprò 1000 gazebo per raccogliere le firme per l’indipendenza padana. Giuridicamente non stava in piedi e politicamente fu contestatissima».
E allora a cosa servì?
«A porre le basi per la riforma del Titolo V della Costituzione. Il governo D’Alema istituì la bicamerale dicendo agli italiani che la secessione era da pazzi e che il federalismo lo avrebbero fatto loro. È stata la base contrattuale per l’autonomia di oggi».
Si è riacceso il dibattito sulla legge elettorale. È favorevole alle preferenze?
«La legge elettorale la sta seguendo il segretario per conto della Lega e non so lo stato dell’arte. Io ho sempre detto che il vero tema è rimettere il cittadino al centro. È chiaro che coinvolgendo le persone è più facile che vadano a votare. Ci vorrebbe anche un election day nazionale all’americana».
A fine mese il Parlamento dovrà approvare la legge di bilancio. Le critiche dicono che sia una manovra un po’ magra, Meloni incolpa il governo Conte di averle lasciato un buco chiamato Superbonus. Lei che ne pensa?
«Il governo ha fatto un ottimo lavoro e voglio ringraziare la presidente Meloni per lo standing internazionale che ha ridato al nostro Paese e il ministro Giorgetti perché portiamo a casa uno spread che ce lo sognavamo da 20 anni. Le ricordo che nel 2011 eravamo arrivati a 600 punti di spread».
Silvio Berlusconi le direbbe che quello fu un golpe.
«E aveva assolutamente ragione, quello fu un dato pompato per far cadere il nostro governo. Però da quel 12 novembre 2011 per arrivare a 70 punti di spread ci sono voluti 12 anni».
È stato un errore «scollegare» la Lega dai suoi territori per farne un partito nazionale?
«È stata una decisione che prendemmo tutti insieme. Un partito nazionale non prescinde dalla difesa degli interessi territoriali».
Come possono stare insieme le due cose.
«Come nel modello tedesco. È un discorso che vale per tutti i partiti. Il militante del Pd di Campione d’Italia ha bisogni e istanze che sono diverse dal militante dem di Canicattì. Infatti quando siamo partiti avevamo coscienza di ciò e abbiamo corso al nord con la Lega e al centro sud collaboravamo con Noi con Salvini. Comunque la Lega rimane sempre la Lega: dare voce a chi non ha voce, il federalismo, l’ordine pubblico, la sicurezza, l’immigrazione e l’identità. Sono i nostri temi e le nostre bandiere».
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