gli scoppiati sono loro

Ranucci, il bestiario dei “buoni”. Da Saviano e Lerner al M5S, danno la colpa al governo

Gianni Di Capua

L’attentato contro Sigfrido Ranucci ha scatenato una valanga di dichiarazioni e di post, una gara di solidarietà che ha unito quasi tutto l’arco politico. Ma dietro l’unanimità apparente si intravede una consueta dinamica: l’uso strumentale dell’indignazione per colpire il governo. L’episodio, gravissimo e ancora tutto da chiarire, è stato subito piegato a una lettura politica, come se l’esecutivo fosse indirettamente responsabile del clima che avrebbe favorito l’attacco al giornalista di Report. Il leader del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte, al presidio di via Teulada organizzato dai giornalisti in solidarietà a Ranucci, non ha perso l’occasione per accusare la maggioranza di aver «paralizzato la Vigilanza Rai», invitando chi oggi si dice solidale a «rinunciare alle querele» e a scusarsi per la «delegittimazione» subita da Ranucci. Sulla stessa linea la presidente della Vigilanza, Barbara Floridia, che parla di «clima d’odio alimentato da alcuni partiti», e Nicola Fratoianni, che invita a «riflettere sul clima creato attorno al giornalismo d’inchiesta».

 

  

 

Per Roberto Saviano l’attentato al conduttore di Report «non nasce oggi: è il frutto di anni di delegittimazione, di campagna mediatiche costruite per isolare, infangare, distruggere civilmente chi osa indagare il potere». Dello stesso avviso anche il giornalista Gad Lerner che affida ai social il suo pensiero: «L’Italia delle bombe e dell’intimidazione ai giornalisti scomodi: l’abbiamo già conosciuta nei tempi più bui della storia nazionale, si manifesta vigliaccamente sotto la regia di classi dirigenti sovversive». Duro anche Bonelli di Avs: «chi in questi anni ha attaccato Ranucci e la redazione di Report, arrivando perfino a chiedere il fermo della trasmissione, rifletta e chieda scusa». Mentre il capo ufficio stampa della Regione Autonoma della Sardegna ha postato una serie di titoli dei quotidiani di destra accompagnato dalla didascalia: «Mi sembra chiaro chi sia il mandante».

 

 

Tutte posizioni che, pur legittime nella sostanza, finiscono per costruire una narrazione coerente: l’attentato come effetto collaterale del linguaggio e delle scelte del governo. Ma le indagini non hanno ancora chiarito né la matrice né le motivazioni del gesto. Eppure il salto logico, dall’ordigno sotto l’auto al «clima d’odio» di Palazzo Chigi, viene proposto come certezza. Una scorciatoia retorica utile a mantenere viva la contrapposizione politica e a riposizionare l’opposizione come unico baluardo della libertà d’informazione. C’è un paradosso evidente: mentre si invoca la moderazione, si usano le parole di solidarietà come armi dialettiche. L’atto criminale, invece di unire, diventa un’occasione per ribadire accuse e ruoli. In questo modo la libertà di stampa, principio che dovrebbe restare fuori dallo scontro politico, finisce trascinata dentro una contesa che ne svuota il significato. Difendere il giornalismo d’inchiesta è doveroso, ma piegare ogni episodio alla propaganda rischia di ridurre la solidarietà a gesto di convenienza. Finché il dolore e l’indignazione saranno usati come strumenti di battaglia, la credibilità del messaggio verrà meno. E il prezzo più alto, alla fine, lo pagheranno proprio la verità e il giornalismo libero che tutti dicono di voler proteggere.