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Da Draghi a Monti, i governi instabili ci sono costati 265 miliardi. E sparano contro il premierato

Giuseppe China
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C’è una somma astronomica che fa comprendere quanto costi l’instabilità politica all’Italia. Ammonta a 265 miliardi di euro, avete letto bene, il denaro della cronica caducità dei governi tricolore. Per essere ancora più chiari è il costo stimato dello spread tra il Bel Paese e la Francia nel periodo di tempo compreso tra il 2011 e il 2021. Una cifra monstre di cui si è in parte discusso, e non poteva essere altrimenti, durante l’evento «Obiettivo premierato», organizzato dal centro studi di Fratelli d’Italia e moderato dal giornalista de «Il Giornale» Vittorio Macioce.

Tra i primi a prendere la parola c’è il ministro per i Rapporti con il Parlamento Luca Ciriani: «La volontà è quella di dare stabilità al sistema politico italiano. Non è un’esigenza che ha il centrodestra o il presidente Giorgia Meloni ma è una esigenza riconosciuta da tutti coloro che in questi anni e hanno denunciato il fatto che l’Italia è il Paese nel quale i governi durano 12-14 mesi, in cui entri con il centrosinistra ed esci con il centrodestra». Anche in questo caso sono i numeri che rafforzano l’evidenza: infatti dal 1948 ad oggi si sono avvicendati 48 esecutivi, guidati da 31 Presidenti del Consiglio.

 

Poco dopo è intervenuto il capogruppo di FdI alla Camera, Tommaso Foti, il quale ha punzecchiato l’opposizione: «L’idea dell’elezione diretta fa parte del Dna della destra. Ci viene contestato che la riforma non prevede un sistema elettorale. È una cosa curiosa, perché non si è mai visto pensare un sistema elettorale senza sapere prima qual è la norma costituzionale che regge quel sistema. Quando la riforma costituzionale sarà approvata si penserà alla legge elettorale, viceversa non è possibile». Va dritto al punto il presidente dei senatori Lucio Malan (FdI) Lucio Malan: «Per essere presi sul serio in ambito internazionale esiste una sola ricetta: avere delle persone che rappresentino a lungo la nostra nazione. Il riflesso di questa circostanza, inoltre, è soprattutto economico dato che la stabilità favorisce la crescita.

Dunque l’obiettivo principale del premierato è l’introduzione di governi stabili come in Germania e Francia». Ritornano i cugini d’Oltralpe e in sala riecheggiano ancora i 265 miliardi persi in un decennio. L’altro perno di quella che viene definita come «la madre di tutte le riforme» è la sovranità popolare.

 

Al netto della legge elettorale è chiaro che con la legittimazione diretta del premier gli elettori avranno un peso specifico maggiore rispetto al contesto attuale. «D’altronde non è un mistero che il sistema partitico risale a un’altra epoca storica. Con lo scoppio di Tangentopoli- argomenta il consigliere laico del Consiglio superiore della magistratura Felice Giuffrè - la governabilità si fatta claudicante. Con la conseguenza che si è creato un fossato tra le istituzioni e cittadini. Noi dobbiamo colmare questo fossato».

Eppure sul premierato aleggia un’incognita chiamata referendum, considerato probabile dagli stessi addetti ai lavori. Secondo alcuni di loro si dovrebbe fare, perché darebbe ulteriore legittimità alla riforma e, di conseguenza, al governo che, comunque, in caso di sconfitta non avrebbe particolari conseguenze. Una vera e propria sfida, invece a giudizio di altri, da non sottovalutare e da ponderare con prudenza in ogni suo aspetto per evitare l’analogo epilogo riservato a Matteo Renzi nel dicembre del 2016.

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