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Governo, mai più Reddito di cittadinanza a vita. Cosa cambia dopo 18 mesi

Filippo Caleri

Governo al lavoro sul reddito di cittadinanza. Se è chiaro che l'assegno anti povertà sarà ridisegnato per evitare distorsioni del mercato dell'occupazione, meno chiara è la direzione dell'intervento. Secondo quanto risulta a Il Tempo l'ultima ipotesi presa in considerazione prevede una sorta di meccanismo di stop and go per coloro che attualmente lo percepiscono. Non per tutti però. L'insieme di chi prende oggi il sussidio sarebbe diviso sulla base di parametri oggettivi in due blocchi. Da una parte gli inabili, ovvero le categorie che per la loro condizione non possono assicurare prestazioni continuative al lavoro. Questi continuerebbero a percepirlo senza alcuna limitazioni trasformandosi di fatto, in un sostegno alla povertà, come fu il Rei (il Reddito di inclusione) sospeso il primo giugno del 2019. Anche in questo senso tra l'altro si starebbe valutando di togliere la gestione delle pratiche del Reddito all'Inps per passarle agli enti locali, come accadeva per il Rei, più vicine alle situazioni di disagio e dunque in grado di meglio valutare la presenza dei requisiti. Nel secondo insieme, comunque, rientrerebbero quelli che pur essendo abili all'occupazione non riescono a trovarla. Proprio per spezzare il circolo vizioso del disincentivo alla ricerca del posto, il governo pensa a un meccanismo di riduzione del beneficio scalato nel tempo. In pratica dopo i primi 18 mesi di erogazione il reddito sarebbe stoppato per sei mesi. Alla fine dei quali però ripartirebbe, per lo stesso soggetto e nel caso non avesse trovato occupazione, per altri 12 mesi. Finito l'ulteriore anno di erogazione ci sarebbe un ennesimo stop di un altro semestre. Terminato il quale il percettore godrebbe degli ultimi sei mesi di Reddito di cittadinanza, perdendo alla fine di questo tempo il diritto a ogni tipo di sussidio.

 

  

 

Una formula che consentirebbe di evitare la replicazione all'infinito dell'assegno sociale in maniera meno traumatica e che ricalca misure come la Naspi (l'indennità per chi perde il posto) che segue lo stesso principio cosiddetto di «dècalage». La scelta consentirebbe di raggiungere due obiettivi. Il primo è incentivare chi resta senza flussi di reddito per sei mesi a riaffacciarsi sul mercato del lavoro, anche accettando lavori stagionali. Il secondo risultato sarebbe economico. La sospensione semestrale consentirebbe di risparmiare ogni semestre circa 1,2 miliardi. E le tre pause lascerebbero nella disponibilità del ministero dell'Economia, nell'arco dei prossimi anni, circa 3,6 miliardi. Una dote finanziaria recuperata senza fare deficit che potrebbe essere usata anche per la soluzione del rebus pensioni. La corsa per evitare il ritorno alla Fornero dal primo gennaio 2023 è, infatti, entrata ormai nella fase di limatura finale. L'imminenza della sessione di Bilancio ha già spinto i tecnici del governo Meloni a mettere nero su bianco i primi dettagli della riforma della previdenza. Per ora pare acclarato che l'orientamento dell'esecutivo sia quello di puntare a Quota 102, cioè all'uscita anticipata con 41 anni di versamenti e 61 di età anagrafica. La strada è stretta perché va incrociarsi con il budget limitato a disposizione a causa della concentrazione delle risorse sui provvedimenti contro il caro bollette. La scelta individuata non sarebbe un grande impegno per il bilancio del 2023 interessando un numero limitato di lavoratori. Secondo i calcoli del Tesoro e dell'Inps a godere del beneficio sarebbe una platea di circa 93-94mila persone e assorbirebbe il prossimo anno, 1,3 miliardi di euro. Non è l'unica novità.

 

 

In pista ci sarebbe anche un test sulla possibilità di mantenere al lavoro, volontariamente, chi raggiunge la prima finestra utile per la pensione. Siano i 67 anni di età o i 42 e 10 di contributi, o anche la Quota 102. L'incentivo garantito sarebbe quello di lasciare la totalità dei contributi previdenziali nella busta paga. In sintesi il salario lordo coinciderebbe quasi con il netto. Un incentivo che sarebbe per ora testato e riservato solo ad alcune categorie. Una, quasi certa a rientrare, è quella del personale medico. Oggi carente negli ospedali per il mancato ricambio generazionale generato anche dalle facoltà a numero chiuso. Anche questo esperimento avrebbe un doppio risultato. Alleviare il problema dell'uscita di medici dalla sanità e dunque allontanare il rischio già palesato dai sindacati di nosocomi a corto di dottori. E contestualmente verificare la fattibilità dell'opzione anche per altri settori nel prossimo futuro.