ferite riaperte

Con la crisi in Ucraina sarà una Liberazione ancor più divisiva per colpa dell’Anpi

Riccardo Mazzoni

Il 25 Aprile di quest’anno non sarà molto diverso dagli altri, salvo il fattore Ucraina, che va però considerato come un ulteriore elemento divisivo da inserire nel solito canovaccio delle divisioni ideologiche che hanno caratterizzato l’anniversario della Liberazione per più di tre quarti di secolo. L’Anpi, con la pretesa di assegnare i passaporti di legittimità per partecipare ai cortei, sta solo perpetuando l’inveterata consuetudine della sinistra di impadronirsi di questa data per affermare una verità storica manipolata, ossia – ed è un autentico ossimoro – che la riconquista della libertà fu soprattutto merito dei partigiani comunisti. Un retaggio che, insieme alla pregiudiziale antiamericana, pesa in tutta evidenza anche sul rifiuto di riconoscere pari dignità alla Resistenza ucraina contro l’invasione russa e sulla cacciata preventiva delle bandiere Nato dalle manifestazioni. Ma, al di là delle polemiche contingenti, resta il fatto che il 25 Aprile non è riuscito a cementare la riunificazione morale di un Paese in cui ancora spesso, nelle diatribe politiche e culturali, si usa l’antifascismo come metronomo per dividere il bene dal male e come arma per delegittimare la destra: una spirale destinata peraltro ad autoalimentarsi, visto che quest’anno cade il centenario della marcia su Roma, e un dibattito con gli occhi tuttora rivolti al passato non perderà l’occasione di spalancare i sepolcri imbiancati.

 

  

 

La stagione del Cln e la Resistenza avrebbero dovuto portare a compimento il difficile processo avviato molto tempo prima da Giolitti, Sturzo e Turati che avevano cercato, pur in un contesto storico anch’esso drammatico, e nonostante le divisioni politiche, di ampliare il consenso popolare intorno alle istituzioni liberali, tentativo interrotto traumaticamente dal fascismo. Poi, la lotta per liberare l’Italia dall’invasione nazista riuscì a unire uomini di ceti e ideologie diverse, ma una volta raggiunto l’obiettivo della Liberazione, i progetti di nazione per il dopoguerra riaprirono le faglie ideologiche, tra chi puntava a un impossibile ritorno all’Italia prefascista e il Fronte popolare che voleva invece trasformare l’Italia in uno Stato socialista alle dipendenze di Mosca. La Costituzione nata dal primo compromesso storico della Repubblica consentì di scongiurare una lunga guerra civile, grazie anche alla collocazione occidentale dell’Italia decisa a Yalta, ma fallì l’obiettivo, che era oggettivamente irraggiungibile, di creare una coscienza morale comune nell’Italia reduce da venti anni di dittatura e dagli esiti di una guerra disastrosa.

 

 

La scrittura della Carta risentì dei pesanti condizionamenti del Pci filosovietico, tanto che la nostra Repubblica non fu fondata sulla libertà ma sul lavoro, e il suo valore primario non è l’antitotalitarismo, ma l’antifascismo. Uno strabismo storico perpetuato dall’egemonia culturale comunista che calò con la forza della sua formidabile propaganda una pesante coltre di omissis, facendo un uso distorto e strumentale della storia. Ci sono voluti decenni, ad esempio, prima che Violante, da presidente della Camera, invitasse a capire anche le ragioni dei «ragazzi di Salò», ed altri anni ancora prima che la sinistra – ma ancora non tutta, anzi... - si decidesse a riconoscere la tragedia delle foibe titine. Nessuna meraviglia, dunque, se anche questo 25 Aprile in mezzo a una guerra diventa l’occasione per riaprire tutte le vecchie ferite invece di fare fronte comune di fronte alle nuove minacce: abbiamo un governo di unità nazionale, ma non una memoria condivisa, requisito irrinunciabile di ogni grande nazione.