veleni sinistri

È dura ammetterlo ma D’Alema stavolta ha ragione. Su Letta, il Pd e Draghi dice la verità

Riccardo Mazzoni

L’ultima sortita di D’Alema ha provocato un vespaio di polemiche, e in effetti la sua entrata a gamba tesa sul Pd «guarito dalla malattia renziana» - e quindi ridiventato politicamente agibile per un ritorno degli scissionisti di Articolo uno - ha suscitato la profonda irritazione perfino di Letta, che pure su Renzi la pensa esattamente come lui.

 

  

Non è forse all’insegna dell’antirenzismo che sta per aprirsi la stagione delle Agorà in funzione di quel «campo largo» che dovrebbe riunire sotto le insegne del Pd le anime sparse della sinistra-sinistra con il coinvolgimento dei Cinque Stelle, dunque di tutto l’arcipelago massimalista che del riformismo è il nemico storico fino dai tempi dello scontro Turati-Bordiga?

 

E non c’è neppure da sorprendersi se D’Alema ha usato il termine «malattia» per definire l’unica stagione – quella renziana, appunto - in cui il maggior partito della sinistra ha tentato di dare un’impronta riformista ai suoi governi. I retaggi della formazione giovanile leninista restano intatti nel suo dna e in gran parte della nomenklatura diessina, ora ribattezzata come «Ditta», e fanno parte integrante della cultura passata e recente della sinistra italiana, secondo cui non sono ammessi nemici a sinistra, una storia contrassegnata da scissioni, fratture ed epurazioni, e questo resta valido ancora oggi, nel momento in cui la restaurazione post-renziana rimette in campo l’idea di unificare la sinistra. Un’area ideologica, politica e culturale che individua come sabotatore chiunque vi si opponga, come Renzi e Calenda.

D’Alema quindi non ha fatto altro che mettere il suo sigillo antipatico all’operazione in corso, dall’alto della sua proverbiale superbia: del resto, è stato il primo e unico comunista a guidare un governo della Repubblica, anche se quell’occasione storica fu malamente sprecata, tra un bombardamento di soppiatto alla Serbia e la trasformazione di Palazzo Chigi in una merchant bank, secondo l’aulica definizione data da Guido Rossi.

 

Ma questa volta ha messo il dito nella piaga nelle contraddizioni del Pd targato Letta, provocando una tempesta che, chissà, potrebbe anche rivelarsi salutare.
È dura dare ragione a D’Alema, ma è purtroppo condivisibile anche l’altra provocazione, degna dell’ingresso di un elefante nella cristalleria, sull’ipotesi dell’ascesa di Draghi al Quirinale: «L’idea che il presidente del Consiglio si autoelegga Capo dello Stato e nomini un alto funzionario del Tesoro al suo posto mi sembra inadeguato per un grande Paese».

Un ragionamento che non fa una piega, e che avrebbe dovuto suscitare un sussulto di orgoglio nei partiti impegnati a risolvere la difficile equazione del Colle. La politica sconta da tempo un deficit di credibilità, il sistema politico è sempre più debole e sfilacciato, il suo commissariamento è stato salvifico per superare la drammatica spirale in cui il governo rossogiallo aveva avvitato il Paese, Draghi è ovviamente un candidato autorevole, ma i partiti hanno almeno il dovere di salvare la faccia e di tentare un compromesso che non sia eterodiretto.

 

L’abitudine ai supertecnici chiamati a salvare l’Italia – da Ciampi a Monti a Draghi – è ormai consolidata, ma il doppio, simultaneo commissariamento Palazzo Chigi-Quirinale sarebbe probabilmente troppo. Nulla di incostituzionale, perché è sempre il Parlamento che ha l’ultima parola, ma uno sfregio intollerabile alla politica, questo sì. Quanto brucia dar ragione a D’Alema...